Dracula nel Regno di Napoli – Parte seconda

La “presunta” tomba di Vlad III e la cappella Turbolo

Articolo di Francesco Pastore © Riproduzione riservata
Ultimo aggiornamento 02/03/2023

La “presunta” tomba di Vlad III

Nella prima parte di quest’articolo abbiamo trattato la figura di Maria Balsa, che alcuni studiosi ritengono sia la “figlia segreta” di Vlad III Tepes alias Dracula – link

In questa seconda parte, invece, entreremo nel merito della notizia data da Il Mattino sul “ritrovamento” della vera tomba di Dracula, prima però è necessario dire che a distanza di un decennio questa presunta sepoltura del voivoda valacco sembrerebbe ancora non aver trovato pace. Il 23 giugno del 2012, infatti, Raffaello Glinni, uno degli studiosi, pubblicò un articolo in cui affermava che Dracula fosse probabilmente sepolto ad Acerenza:

Che la figlia abbia comunque dato sepoltura al padre ad Acerenza, visto che il corpo di Dracula, ucciso dai Turchi, forse decapitato, non è mai stato trovato?” – Fonte

A distanza di appena tre mesi da questo “scoop” ecco arrivare un colpo di scena, il Glinni e la sua equipe, infatti, in un articolo pubblicato il 21 settembre 2012, spostano la loro attenzione da Acerenza a Napoli e, coinvolgendo le SS di Himmler, convergono sulla Basilica di Santa Maria del Carmine Maggiore come luogo della presunta sepoltura di Vlad III Tepes. (link).

Circa due anni di pace per le spoglie del voivoda valacco ma con l’articolo de Il Mattino del 11 Giugno 2014, oggetto di questo articolo, ecco arrivare un altro colpo di scena. Il Glinni e la sua equipe, infatti, si ricredono sulla Basilica di Santa Maria del Carmine Maggiore e convergono tutte le loro attenzioni sulla Chiesa di Santa Maria la Nova.

Le spoglie di Vlad III Tepes finalmente riposano in pace? No, perché come si vedrà alla fine di questa seconda parte dell’articolo, il Glinni e la sua equipe ultimamente hanno provveduto a rinverdire la loro narrazione con un ennesimo colpo di scena.

Dopo questo doveroso preambolo, entriamo nel merito della notizia data da Il Mattino nel Giugno 2014, in particolare andiamo ad esaminare i “nuovi indizi” che hanno portato gli studiosi ad avere la “certezza” che la tomba di Vald III sia propria quella di Matteo Ferrillo:

«Ma perché tante certezze? Il marmo, che appartiene alla tomba di Ferrillo, il «genero» di Dracula, è denso di riferimenti che non apparterrebbero alle spoglie dell’uomo che dovrebbe essere lì dentro. E qui la realtà diventa romanzo, almeno finché la scienza non dirà che è tutto vero: «Guardate i bassorilievi – spiega raggiante Glinni – la rappresentazione è lampante. Ricordate che il conte si chiamava Dracula Tepes: vedete che qui c’è la rappresentazione di un drago, Dracula appunto, e ci sono due simboli di matrice egizia mai visti su una tomba europea. Si tratta di due sfingi contrapposte che rappresentano il nome della città di Tebe che gli egiziani chiamavano Tepes. In quei simboli c’è “scritto” Dracula Tepes, il nome del conte. C’è bisogno di altre conferme?» – Link

Tomba Matteo Ferrillo – Francesco Pastore © Riproduzione riservata

Prima di iniziare nell’analizzare le “prove” del Glinni, diamo qualche informazione su Matteo Ferrillo e la sua tomba attribuita a Vlad III Tepes.

Matteo o “Mazzeo” Ferrillo nacque nella prima metà del XV secolo, membro di una famiglia patrizia napoletana che fondò nel XIV secolo la chiesa di Santa Margherita de’ Ferrillis, successivamente nel 1586, l’arcivescovo Annibale di Capua la concesse ai cittadini tedeschi residenti a Napoli che la dedicarono a Santa Maria dell’Anima, titolo della loro chiesa nazionale di Roma. Matteo Ferrillo fu ascritto al “sedile” (istituzione amministrativa della città di Napoli) di Porto, fu un importante personaggio alla corte del re di Napoli, tanto che quando partecipò nel 1494 alla cerimonia di incoronazione di Alfonso II d’Aragona resse l’elmo del sovrano.

Nel 1499 Matteo Ferrillo fece costruire nella chiesa di Santa Maria la Nova in Napoli il sepolcro gentilizio, oggi presente nel chiostro piccolo del complesso monumentale. Nella parte superiore della tomba leggiamo il seguente epitaffio:

MATTHEUS FERRILLUS NOB. ET EQUESTRIS ORDINIS INSIGNIS MURI COMES ALPHONSI II REGIS ARAG. A CUBICULO PRIMUS EIUSQ. DUM PATERENTUR ANIMI GUBERNATOR POSTERITATI CONSULENS SACELLUM HOC VIRGINIA ASSUMPTIONI DICATUM VIVENS SIBI ET SUI F.

Alla base della tomba troviamo la sua datazione:

AN. A CHRISTI NATALIBUS MCCCCLXXXXIX

In sostanza dalle iscrizioni si evince che Matteo Ferrillo fu un nobile appartenente all’ordine equestre ed insignito Conte di Muro dal re Alfonso II d’Aragona, Ferrillo fece costruire “questo sacello” (=cappella), dedicato all’Assunzione della Vergine, per se stesso e i suoi (=eredi/familiari) nell’anno 1499 dalla nascita di Cristo.

L’epitaffio ci dice dunque che la tomba di Ferrillo si trovava originariamente in una cappella dedicata all’Assunzione della Vergine, all’interno del Complesso di Santa Maria la Nova. Negli ultimi anni è stato trovato un importante documento risalente alla fine del 1500 dove ci viene “svelato” dove si trovava questa cappella, ma ne parleremo più avanti, adesso andiamo ad esaminare le “prove” riportate dal Glinni sia nell’articolo de Il Mattino che nella rivista Fenix

Il nome Dracula Tepes sulla tomba di Ferrillo

Drago = Dracula?

Francesco Pastore © Riproduzione riservata

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“la rappresentazione è lampante. Ricordate che il conte si chiamava Dracula Tepes: vedete che qui c’è la rappresentazione di un drago, Dracula appunto” – Raffaello Glinni

Per iniziare notiamo subito un’incongruenza, lo studioso fa diventare il “voivoda” Vlad III Tepes Dracula un “conte”, come il personaggio del romanzo di Bram Stoker, trovo inoltre singolare il “metodo di lettura” del Glinni che interpreta delle figure riportate sulla tomba come se fossero dei rebus di una qualsiasi rivista di enigmistica, ma andiamo oltre, proviamo ad utilizzare questo “metodo” per costatare se è possibile leggere sulla tomba il nome “Dracula Tepes”.

Provando ad analizzare la su riportata immagine, ai lati dei due ibridi alati con testa di donna, che Glinni asserisce essere “sfingi”, vediamo che non ci sono due draghi bensì due esseri ibridi alati con testa molossoide o di pantera, tipici dei più che nutriti bestiari medievali visibili in moltissime chiese anche precedenti di secoli quella di Santa Maria la Nova.

Ricordo che la realizzazione della tomba di Ferrillo è stata attribuita allo scultore lombardo Jacopo della Pila, un conterraneo di Giovanni Pietro da Cemmo, un pittore che visse ed operò tra il XV e il XVI secolo, i due sembrano avere un’influenza stilistica comune se raffrontiamo il bassorilievo del “Drago” della tomba di Ferrillo ed una grottesca di Giovanni Pietro da Cemmo:

Fonte grottesca: Bernardo Zanini, Il simbolismo alchemico di Pietro da Cemmo, in Insula Fulcheria” 42/2012, p. 167

Ibridi alati risalenti al 1505 (link), simili a quelli della tomba di Ferrillo, li ritroviamo ad esempio sulla base dei piloni porta pennoni in piazza San Marco a Venezia:

Quindi quello che vediamo non è certo un drago ma un ibrido con una testa molto simile ad un cane molosso od a un felino.

Tebe = Tepes?

Riguardo alla lettura del termine Tepes il Glinni afferma:

“…due sfingi contrapposte che rappresentano il nome della città di Tebe che gli egiziani chiamavano Tepes”

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Similmente nel video di Focus al minuto 06:47 Raffaello Glinni afferma:

“Proseguendo nella lettura del glifo si legge un drago, due sfingi contrapposte e dei papiri, si legge Drago Tepes, perché proprio la città di Tebe o Tepes veniva indicata con due sfingi contrapposte.”

Purtroppo per il Glinni gli Egizi non indicavano la loro città di Tebe con due sfingi contrapposte, sarebbe interessante sapere da dove egli prende questa informazione. Gli Egizi chiamavano la loro città Waset, gli antichi greci Thēbai, i geroglifici con cui gli Egizi rappresentavano la città di Waset erano i seguenti:

I geroglifici si traslitterano w3st che significa “Città dello scettro“, la città nel corso dei secoli venne conosciuta anche con altri nomi come “la città di Amun”, “città  del sud”, “Heliopolis del sud”, ma anche in questo caso, nei diversi nomi della città, non è presente un segno geroglifico a forma di sfinge. In epoca tolemaica, invece, quando i sovrani egizi nativi furono sostituiti da quelli di origine greca, il nome della città fu ellenizzato diventando Θῆβαι (Thēbai) e si potrà vedere che Θῆβαι è scritto con la lettera greca “β” (b) e non con la lettera greca “π” (p).

Inoltre le “sfingi” della tomba di Ferrillo sono ben differenti da quelle egizie, esse sono alate e hanno una coda sireniforme per cui non hanno nulla a che vedere con le sfingi egizie con corpo di leone e testa umana che, con quelle con corpo di leone e testa di ariete, caratterizzano il viale che a Tebe collega il tempio di Luxor con quello di Karnak.

In breve, non esiste alcuna relazione tra le “sfingi” raffigurate sulla tomba di Ferrillo e il nome della città egiziana di Tebe.

Delfini = Dobrugia?

A supporto della “lettura” Dracula Tepes sulla tomba di Ferrillo il Glinni interpreta i due delfini posti al di sopra delle “sfingi” come richiamo alla regione rumena della Dobrugia:

Fonte: la citata rivista Fenix, p. 16

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«…sulla stessa tomba compare il simbolo della Dobruja, una zona della Romania attigua alla Valacchia, che ricadeva tra le terre di cui fu principe Vlad Dracula. In una cronaca del 1510 la presunta figlia di Dracula, viene indicata quale “figlia del Voivoda di Misia”, che corrisponde alla “Misia Romana”, cioè il sud della Romania in cui è sita proprio la regione della Dobruja e il cui stemma sono due delfini accoppiati. Proprio lo stemma presente sia sulla tomba di Napoli che nella cripta di Acerenza. È un altro indizio che appartenga a qualcuno che aveva strettissimi rapporti con la Romania e le zone governate da Vlad Tepes, non avendo alcun senso per un Ferrillo (suocero della Balsa) utilizzare sulla tomba di famiglia il simbolo della Dobruja. Detta zona fu anche teatro di una delle più note vittorie di Dracula sui Turchi, per cui la presenza dello stemma potrebbe avere un valore celebrativo indicandolo quale Signore e Vincitore di Dobruja, il che è in linea con il guerriero rappresentato sulla parte superiore della Tomba, col simbolo dell’ordine del Dragone, che nulla ha a che fare con la famiglia dei Conti Ferrillo.» – Fenix, p. 16

La Dobrugia fu veramente teatro di una delle più note vittorie di Vlad? In realtà no.

Vlad III nella zona dell’attuale Dobrugia svolse delle incursioni preventive prima di avere uno scontro diretto con Maometto II, un resoconto di questo, ci giunge dallo stesso Vlad III in una lettera datata 11 febbraio 1462 al re di Ungheria Mattia Corvino, con essa Vlad III comunicava al re di aver rotto la pace con il sultano Maometto II:

“Ho ucciso contadini uomini e donne, vecchi e giovani, che vivevano a Oblucitza e Novoselo, dove il Danubio sfocia nel mare, fino a Rahova, che si trova vicino a Chilia, dal basso Danubio fino a luoghi come Samovit e Ghighen. Abbiamo ucciso 23.884 turchi senza contare coloro che abbiamo bruciato nelle case o i turchi le cui teste sono state tagliate dai nostri soldati… Quindi, Vostra Altezza, dovete sapere che ho rotto la pace con lui… [il Sultano]” – Florescu-McNally, Dracula: Prince of many faces – His life and his times, Little, Brown and Company, Boston, MA, 1989.

È lo stesso Vlad III quindi a invalidare quanto sostenuto dalla teoria perché, scrivendo a Mattia Corvino che con quelle sue incursioni avrebbe rotto la pace con il sultano, il voivoda evidenzia che in Dobrugia non ci fu nessun scontro frontale tra il suo esercito e quello di Maometto II perché quell’incursione fu fatta in un periodo di pace.

Inoltre, come si può notare nell’immagine della rivista Fenix, i due delfini effigiati sulla tomba differiscono da quelli riprodotti sullo stemma della Dobrugia (le loro teste, infatti, sono rivolte verso l’esterno mentre quelle nello stemma sono rivolte all’interno). Aggiungo che il simbolo dei delfini erano molto comuni nelle espressioni artistiche sia antiche che rinascimentali, soprattutto su capitelli, in motivi ornamentali a candelabra e in grottesche. Meraviglia molto, perciò, dato che al team degli studiosi sostenitori dell’ipotesi si sono aggiunti anche esperti di arte, che nessun voce si sia levata fuori dal coro per tacitare quell’associazione con la “vittoria” di Vlad III in Dobrugia.

Se questi esperti di arte avessero ispezionato anche in modo superficiale il chiostro piccolo, avrebbero visto una rappresentazione di delfini simile a quella che per l’ipotesi rappresenterebbero lo stemma della Dobrugia, avrebbero inoltre costatato che questi delfini si trovano in un contesto che non ha nulla a che fare con i Ferrillo, né tanto meno con Vlad III Tepes.

Entrata della sagrestia dal chiostro piccolo
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Anche con i “delfini” notiamo, come per il “drago” in precedenza, una grande somiglianza di stile tra il bassorilievo realizzato da Jacopo della Pila e una grottesca di Giovanni Pietro da Cemmo.

Fonte grottesca: Bernardo Zanini, Il simbolismo alchemico di Pietro da Cemmo, in Insula Fulcheria” 42/2012, p. 164

Per ultimo, riguardo l’associazione dei delfini allo stemma della Dobrugia, va detto che all’epoca di Vlad III non esisteva né lo stemma né la regione. Le provincie storiche che suddividevano il territorio rumeno in quel tempo erano tre: Valacchia, Moldova e Transilvania. Inoltre lo stemma della Dobrugia fu introdotto da Gheorghe Asachi solo nel 1816, non poteva quindi esserci al tempo di Vlad III:

«Il primo simbolo della Dobrugia, rappresentata prima come la regione delle foci del Danubio, era costituito da due delfini, introdotti nel circuito araldico da Gheorghe Asachi nel 1816. La consacrazione araldica fu fatta attraverso lo stemma della Romania nel 1872, dove due delfini d’oro che si fronteggiano, rappresentano la costa del Mar Nero come arma di rappresentazione. La conclusione necessaria a questo riguardo è che nella nostra storia ci sono state solo tre province storiche vere e proprie, che hanno anche acquisito l’individualità statale: Tara Românească [Valacchia], Moldova e Transilvania, riconoscendo il loro status di principati (grande principato della Transilvania). È, quindi, artificiale e ingiustificato che sullo stemma appaiano rappresentate con i propri simboli Oltenia, Banat e Dobrugia e non appaiono Bessarabia, Bucovina, Crișana e Maramureş. Tanto più che Bessarabia e Bucovina hanno partecipato come entità politiche separate al movimento nazionale e alla lotta per la Grande Unione. Riteniamo normale che le distinte regioni storiche rimangano raggruppate nelle tre province storiche vere e proprie e siano rappresentate dai loro simboli, come segue: Tara Românească [Valacchia] con Muntenia, Oltenia e Dobrugia; Moldavia con Bessarabia e Bucovina; Transilvania con Banat, Crișana e Maramureş» – Ioan Silviu Nistor – Stema României, istoria unui simbol; studiu critic, Editura Studia, 2003

Viene quindi meno ogni tentativo di collegare i delfini della tomba di Ferrillo a Vlad III Tepes.

Le tre stelle dello stemma Ferrillo

In una delle mie visite a Santa Maria la Nova un responsabile del complesso mi fece notare un particolare sulla tomba di Ferrillo, la stella centrale delle tre che compaiono sullo stemma della famiglia Ferrillo è capovolta rispetto alle altre, questo secondo lui aveva un significato particolare, ad esempio che poteva indicare che lì ci sia sepolto un “personaggio scomunicato”:

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Ovviamente questa è solo una congettura del suddetto responsabile che non trova riscontri, tra l’altro sempre nel piccolo chiostro dove si trova la tomba di Ferrillo c’è un altro stemma di un’altra famiglia, posto al disopra della porta d’ingresso della sagrestia, dove si può vedere una stella capovolta:

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Di questa però il responsabile non ha dato “spiegazioni”. Comunque anche ad Acerenza alcuni stemmi della famiglia Ferrillo hanno delle stelle capovolte e non necessariamente quella centrale:

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Come si può vedere la direzione delle punte delle stelle non seguiva una regola precisa, non penso quindi che si debba trovare un particolare significato per la diversa direzione della stella sullo stemma dei Ferrillo.

Riguardo le tre stelle comunque Raffaello Glinni ha però ipotizzato una “lettura” alternativa:

«Com’è noto, Stoker fu membro dell’organizzazione ermetica Golden Dawn e ben conosceva i simboli egiziani (scrisse un libro su un’antica regina egiziana con una storia molto simile al film “La Mummia”) e ciò anche per aver frequentato il padre di Oscar Wilde, noto professore universitario e celebre egittologo.

Il simbolo delle tre stelle, presente sul blasone iscritto sulla tomba Napoletana è il geroglifico che indica: colui che non muore.

Nel Blasone di Napoli la stella centrale è volutamente rovesciata (diventa il simbolo del diavolo e Dracula vuol dire anche Diavolo) e ciò ad indicare la sepoltura di qualcuno che ha avuto problemi con la Chiesa. Coincidenze? Di sicuro Stoker vide la tomba di Napoli e ne decifrò le scritte egiziane, lì utilizzate com’era uso del tempo dal Conte Ferrillo (grande esperto del settore chiamato per questo il conte Archeologo) ed è da domandarsi come mai lo scrittore prese un treno proprio per l’entroterra lucano.» – link

Vediamo che anche il Glinni ritiene che la stella centrale dello stemma dei Ferrillo sia “volutamente rovesciata” per indicare il simbolo del diavolo, ma come abbiamo visto in precedenza la cosa non è scontata, anzi trova “applicazione” sua altri stemma come quello sulla porta della sagrestia che affaccia sul chiostro piccolo di Santa Maria la Nova.
Sul fatto che Bram Stoker sia stato un membro dell’organizzazione ermetica Golden Dawn ci sono molti dubbi tra gli studiosi. Il libro di Stoker che parlerebbe di un’antica regina egizia si intitola The Jewel of Seven Stars (Il gioiello delle sette stelle) pubblicato nel 1903.

Il Glinni afferma che “Il simbolo delle tre stelle” è il geroglifico che indica “colui che non muore”, aggiunge inoltre che queste “scritte egiziane” erano d’uso essere utilizzate dal conte Ferrillo. Forse a qualcuno non sfuggirà che quanto detto dallo studioso risulta essere una scoperta straordinaria: all’epoca del conte Ferrillo si conosceva già il significato dei geroglifici egizi!

Il conte Ferrillo, o chi per esso, avrebbe riportato sulla tomba il geroglifico delle tre stelle conoscendone il significato che secondo Glinni è “colui che non muore”, inoltre Stoker secoli dopo decifrò questo ed altre “scritte egiziane” presenti sulla tomba di Ferrillo, ma quanto c’è di vero in tutto questo? Praticamente niente!

Tutti sanno che i geroglifici egizi furono tradotti per la prima volta nel 1822 da Jean François Champollion, questo viene insegnato addirittura sin dalle scuole primarie, sembra quindi molto “improbabile” che alla fine del 1400 qualcuno conoscesse la lettura dei geroglifici andata persa molti secoli prima. Ma a netto di tutto questo, veramente il geroglifico delle tre stelle significa “colui che non muore”?

La risposta è no perché gli Egizi non avevano nessun “simbolo delle tre stelle” in quanto un segno ripetuto tre volte per loro indicava soltanto un normale plurale perché lo esprimevano in tre modi. Il primo, appunto, ripetendo il segno tre volte, il secondo aggiungendo al segno rappresentato tre trattini verticali e il terzo, più raro, aggiungendo al segno rappresentato tre cerchietti. Di conseguenza nel caso di “stelle” avremmo il segno della stella (N14 della lista di Gardiner) ripetuto tre volte, il segno della stella con tre trattini o, in casi molto più rari, con tre cerchietti.

Come è possibile arrivare, allora, al concetto per gli Egizi indicante un’immortalità collegata alle stelle?

Semplicemente pensando a chi per questo popolo non sarebbe mai morto e quindi al sovrano il cui spirito, una volta deceduto, sarebbe salito al cielo e si sarebbe trasformato in una stella circumpolare cioè una stella che non tramonta mai per cui una stella “che non muore”.

Fonte: Wikipedia

In base quindi a quanto appena scritto e riprendendo l’affermazione del Glinni in cui parla al singolare “Il simbolo delle tre stelle, presente sul blasone iscritto sulla tomba napoletana è il geroglifico che indica: colui che non muore”, sul blasone per indicare “colui che non muore” sarebbero dovuti essere presenti una sola stella e non tre, i segni j.ḫm, participio attivo imperfettivo di ḫm (ignorare, non conoscere) e sk significante “distruzione” quindi letteralmente “ignorante la distruzione”, “non conoscente la distruzione” da cui “stella indistruttibile”, “stella imperitura” e cioè stella circumpolare.

j.ḫm-sk

Un chiaro esempio possiamo vederlo dai Testi delle Piramidi di Kurth Sethe – Utterance 215 c – Unis.

Traduzione:

Le tue orecchie sono i figli gemelli di Atum, oh indistruttibile (o ignorante oppure non conoscente la distruzione). I tuoi occhi sono i figli gemelli di Atum, oh stella ignorante (o non conoscente) la distruzione (oppure stella indistruttibile o imperitura per cui stella circumpolare).

Volendo mettere sul blasone tre stelle, indicanti un plurale, sarebbero dovuti essere presenti anche i segni j.ḫmw participio attivo imperfettivo di ḫm (ignorare, non conoscere) e sk significante “distruzione” quindi letteralmente “ignoranti la distruzione”, “non conoscenti la distruzione” da cui “stelle indistruttibili”, “stelle imperiture” e cioè stelle circumpolari.

j.ḫmw-sk

Un esempio possiamo vederlo sempre dai Testi delle Piramidi di Kurth Sethe – Utterance 268 – Unis – Pepi II.

Traduzione In entrambe le righe:

“Il re guida (le) stelle ignoranti la distruzione (o non conoscenti la distruzione o indistruttibili per cui stelle circumpolari)

Si potrà notare quindi che, volendo usare tre stelle indicanti un plurale, il Glinni pur di supportare la sua interpretazione ad personam intanto avrebbe dovuto tradurre al plurale per cui non “colui che non muore” bensì “coloro che non muoiono” ma, sfortunatamente per lui, sul blasone in oggetto mancherebbero, guarda caso, proprio tutti gli altri segni geroglifici indicanti per gli Egizi il concetto di immortalità.

Stando così le cose, perciò, se il “conte Archeologo” conosceva il significato dei geroglifici egizi e immortalò sul suo blasone solo tre stelle volle semplicemente scrivere “Stelle”.

Ultimamente Raffaello Glinni con la pubblicazione del suo articolo Il mito di Dracula nel Sud Italia e la strada delle stelle (In Vlad Una leggenda napoletana, gennaio 2023) pp. 93-99, ha cambiato versione su come interpretare le tre stelle, non significano più “colui che non muore” ma rappresentano Orione che a suo dire è “colui che non muore”:

«Sullo stemma dei Ferrillo vi sono raffigurate tre stelle, simbolo di Orione, ovvero “colui che non muore”. Secondo l’esperta di astronomia Annabella Buonomo, la simmetria del blasone risulta perfettamente inserita tra la strada delle stelle di Orione, che convergono guarda caso nella costellazione del drago, e la stella Aker. Come nei miti Egiziani, che l’esoterista Stoker ben conosceva.» – p. 99

Il fatto che le tre stelle della cintura di Orione siano un elemento di spicco di questa costellazione, non significa che vanno giocoforza identificate con quelle dello stemma dei Ferrillo, se si scorre il solo elenco degli stemmi araldici delle famiglie nobili napoletane, possiamo vedere decine e decine di stemmi riportanti tre stelle, dovremmo anche per tutti questi ricondurli a quelle di Orione?

Come ho detto il simbolo della stella e il suo multiplo era molto comune nell’araldica come ci dice G. Crollalanza in Enciclopedia araldico-cavalleresca, Pisa 1876-77:

«Le stelle sono tra le figure più diffuse dell’araldica; ed è naturale che una figura sì bella e da tutti  conosciuta sia stata adottata da tante famiglie. In Lombardia e Toscana erano un tempo contrassegno dei Guelfi; mentre in Romagna tre stelle in capo dimostravano che il possessore del l’arma era Ghibellino. In Francia le stelle nell’armi furono moltiplicate dai cavalieri dell’ordine della Stella, e in Inghilterra v’ha chi dice fossero un distintivo dei cavalieri della Giarrettiera e del Bagno.  Un capo d’azzurro o di rosso, caricato di tre stelle d’argento o d’oro, è più che comune nei blasoni francesi; negli inglesi serve spesso di brisura dei quartogeniti e dei loro discendenti.» – p. 561

Voler collegare le tre stelle dello stemma dei Ferrillo con quelle di Orione e solo un mero esercizio di fantasia che non trova alcun riscontro in nessun testo d’araldica.

La cappella Turbolo

La cappella Turbolo, detta anche della “Immacolata Concezione”, è situata a destra del cappellone di San Giacomo della Marca in Santa Maria la Nova a Napoli, alla parete sinistra della cappella vi è il sepolcro dei titolari, i coniugi Bernardino Turbolo e Giovanna Rosa,  sulla parete frontale, in mezzo alle statue di San Francesco d’Assisi e San Bernardino da Siena, vi è la Vergine Immacolata con al di sopra un Padre Eterno benedicente.

Dai documenti a disposizione risulta che la costruzione della cappella Turbolo non avvenne prima del 25 ottobre 1572, data in cui risale il testamento di Bernardino Turbolo che, dopo aver nominato eredi universali la moglie Giovanna Rosa e i figli Annibale, Giovan Battista e Giovan Gerolamo Turbolo, impose:

che i detti suoi figli sono tenuti a far costruire una cappella dentro la detta chiesa di S. Maria la Nova di Napoli, e per la sua costruzione spendessero mille ducati di Carlini” –

Alessandro Grandolfo – La decorazione scultorea della Cappella Turbolo in Santa Maria la Nova a Napoli, p. 204

La cappella fu portata a termine in circa quattro anni, inoltre nel 1576 ebbe un particolare privilegio da parte del papa:

«Nel 1576 papa Gregorio XIII concesse un privilegio di indulgenza alla cappella e i Turbolo fecero apporre due iscrizioni commemorative, una in lingua greca e l’altra latina, proprio ai lati dell’altare. L’ornamentazione marmorea dell’intera cappella, sepolcro compreso, volse verosimilmente a conclusione verso il 1583, quando gli eredi Annibale e Giovan Gerolamo Turbolo versarono un pagamento di ottanta ducati, di cui però ignoriamo la causale, a favore del marmoraro Fabrizio di Guido» –

Alessandro Grandolfo – La decorazione scultorea della Cappella Turbolo in Santa Maria la Nova a Napoli, p. 206

Alessandro Grandolfo in riferimento alle due iscrizioni commemorative, una in lingua greca e l’altra in latino, cita in nota Gaetano Rocco, Il convento e la chiesa di Santa Maria La Nova, 1927, p. 259, che riporta:

«Ai due lati dell’altare, in due grandi lapidi, si leggono due iscrizioni, l’una greca, l’altra latina, delle quali risulta che detto altare gode il privilegio delle indulgenze come quello di S. Gregorio a Roma.»

Purtroppo il Rocco e chi lo ha assecondato nella sua citazione cadono in alcuni errori non proprio veniali, se da una parte si conferma che l’iscrizione in latino posta a sinistra è riportata su una lapide di marmo quella a destra risulta essere invece un’epigrafe, tra l’altro nemmeno in greco!

Una sezione dell’epigrafe
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Se ad un primo sguardo alcuni caratteri riportati sull’epigrafe possono assomigliare a quelli greci molti altri non lo sono, considerata l’erudizione di Gaetano Rocco risulta un mistero sul perché la ritenesse scritta in greco, tra l’altro nel suo testo ha riportato la trascrizione solo del testo in latino guardandosi bene dal trascrivere quella in “greco”.

Comunque sull’epigrafe, che ad oggi risulta ancora indecifrata, qualcuno vi legge alcune parole tra cui “Vlad”, da qui il collegamento a Vlad III Tepes e di conseguenza alla tomba di Ferrillo. Qualcuno ha iniziato ad ipotizzare che prima che i Turbolo costruissero la loro cappella l’epigrafe misteriosa era già lì presente, e “probabilmente” anche la tomba di Ferrillo si trovava in quel luogo, salvo poi essere spostata quando i Turbolo iniziarono i lavori, lasciando però intatta l’epigrafe al suo posto. Questa ipotesi mi fu spiegata da un responsabile del complesso monumentale di Santa Maria la Nova, tra l’altro il prof. Giuseppe Reale in un suo articolo Il Codice la Nova, pubblicato sulla rivista rumena curata da Mircea Cosma Cei ce ne-au dat nume- Vlad Tepes, nr. 8/2022, ipotizza la presenza di allestimenti preesistenti riadattati al progetto della nuova cappella dei Turbolo.

«la raffigurazione odierna non esclude che vi possano essere state altre intitolazioni della preesistente cappella, che doveva avere un aspetto architettonico presumibilmente diverso da quello odierno, come emergerebbe dalla semplice osservazione del pavimento marmoreo, attraversato da linee perpendicolari, in cui, tuttavia, emerge la mancanza di lastre omogenee sulla parete destra, in corrispondenza all’iscrizione oggetto delle nostre indagini, e sia per un adattamento di una botola di accesso alla terra santa sottostante, in corrispondenza del monumento funebre dei Turbolo sulla parete sinistra, quasi a conferma di un allestimento preesistente e riadattato al progetto della nuova cappella gentilizia.» – p. 8 (cfr.  Vlad.Una leggenda napoletana, Phoenix Publishing, 2023, p. 22)

L’articolo del prof. Giuseppe Reale è stato ripubblicato in Vlad Una leggenda napoletana, Phoenix Publishing, gennaio 2023, pp. 15-33

Aggiungo inoltre che lo stesso prof. Giuseppe Reale, nell’intervista alla rivista Fenix, ipotizza che la cappella Turbolo poteva in precedenza essere stata la sede della tomba di Ferrillo:

Le fonti dicono che la tomba [di Ferrillo] fosse collocata nella Cappella dell’Assunta, che però non è indicata né in disegni, né in alcuna altra documentazione. Dove fosse ubicata prima questa tomba non lo si sa con certezza, ma credo, come le ho detto, che abbiamo individuato il luogo, la Cappella Turbolo. (…) Incominciamo a pensare che la tomba dei Ferrillo sia stata spostata da lì proprio a causa dei lavori voluti e finanziati dai Turbolo. Se questo fosse vero, indicherebbe che la tomba di Ferrillo dove è oggi non contiene nulla al suo interno. (…) Dunque la sepoltura è sotto la pavimentazione, nel cimitero sottostante, e il corpo del proprietario/a cui apparteneva il complesso marmoreo dei Ferrillo deve essere ancora nel luogo originario. Le offro un’anteprima, notizia di qualche giorno fa, nella cripta dei Turbolo, lì dove crediamo fosse situata l’opera tombale in esame, abbiamo trovato al di sotto della pavimentazione una bara con l’iscrizione “F.M.” che potrebbe stare per Matteo Ferrillo, ma ripeto, per ora non c’è nulla di accertato. – pp. 22-23

Stando quindi alla suddetta ipotesi, alla parete destra della cappella Turbolo dove vi è rappresentato il loro stemma di famiglia:

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doveva in precedenza esservi un’altra tomba, in base alle indicazioni del prof. Reale, questo lo si intuirebbe, osservando il pavimento marmoreo alla base della parete destra:

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Inoltre, secondo il prof. Reale, un indizio di un pavimento preesistente, lo vediamo nell’adattamento della botola di accesso alla terra santa sottostante, in corrispondenza del monumento funebre dei Turbolo sulla parete sinistra:

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Seguendo quindi la suddetta ipotesi e il prof. Reale il pavimento era già presente prima della costruzione della cappella Turbolo, la famiglia avrebbe quindi deciso di non rimuoverlo ma di modificarlo in base alle loro esigenze, vedi immagine modifica botola.

In base alle mie ricerche l’ipotesi che l’attuale pavimento alla cappella Turbolo faceva parte di una precedente cappella risulta molto discutibile, mentre per quanto riguarda l’ipotesi che la tomba di Ferrillo si trovasse in precedenza in quel luogo prima di essere spostata nel chiostro piccolo, viene smentita da un documento notarile scoperto qualche anno fa dalla storica dell’Arte dott.ssa Antonella Dentamaro.

Ipotesi del pavimento preesistente

Se si guarda con attenzione il pavimento della cappella Turbolo, si possono notare dei “rattoppi” atti ad aggiustare delle asimmetrie, che sarebbero ingiustificate in un disegno di un pavimento di un progetto primario, mi riferisco in particolare a quelle asimmetrie che vediamo verso il centro del pavimento non certo a quelle sotto le pareti, eccone un esempio:

Francesco Pastore © Riproduzione riservata

Nell’immagine si vede un’aggiunta di un pezzo di marmo nella cornice di una lastra, esso infatti manca in quella della lastra/botola, che è specularmente posta sul lato opposto della cappella. Questo potrebbe far pensare che il pavimento fosse di un’altra cappella e che è stato riadattato in seguito in questa, oppure, molto probabilmente, che il pavimento è quello fatto posizionare dai Turbolo e che nel corso dei secoli abbia subito danneggiamenti tali da essere poi rimosso del tutto. In seguito, quando il pavimento è stato restaurato, la sua disposizione non rispecchiava più quella in origine, da qui i piccoli aggiustamenti.

Che il pavimento marmoreo della cappella Turbolo fosse stato completamente rimosso lo possiamo vedere dalle foto del libro di Gaetano Rocco, Il convento e la chiesa di S. Maria La Nova di Napoli del 1927:

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Dalla comparazione delle foto possiamo vedere che oltre alla presenza di balaustre attualmente assenti, il pavimento grezzo senza i marmi della cappella Turbolo era allo stesso livello di quello del Cappellone della Marca, oggi il pavimento della cappella lo vediamo rialzato fino alla base delle allora balaustre, possiamo inoltre vedere lo scalino sotto l’altare molto più alto rispetto a quello di adesso, infine si vede la fossa al centro della cappella priva della lastra marmorea con lo stemma della famiglia Turbolo.

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Quest’altro raffronto mostra la base della tomba di Bernardino Turbolo e della moglie Giovanna Rosa, si può notare in che stato disastroso si trovava nel 1927 la cappella, si può vedere una grossa lastra appoggiata alla base della tomba, pezzi di balaustre ed altro ancora.

Considerato quanto sopra, delle “imperfezioni” del pavimento non possono essere indicate come indizi o prove di una sua preesistenza, quanto meno chi afferma ciò dovrebbe indagare su chi e quando ha riposizionato il pavimento dopo il 1927, anche per capire se è stato usato lo stesso materiale della cappella e/o altro materiale di risulta di altre cappelle.

Ipotesi della tomba Ferrillo posizionata accanto all’epigrafe misteriosa

Come ho detto in precedenza, mi è stato ipotizzato che la tomba di Ferrillo poteva in origine essere posizionata accanto all’epigrafe misteriosa dove alcuni vi leggono la parola “Vlad”, questo sarebbe una simbiosi perfetta per chi afferma che nella tomba di Ferrillo in realtà vi è sepolto Vlad III Tepes, comunque sia questa ipotesi trova la sua smentita in un documento notarile inedito, scovato da Antonella Dentamaro e inserito nella sua tesi di laurea, Ricerche su Jacopo della Pila e i suoi committenti, tesi di laurea magistrale, relatore prof. Francesco Caglioti, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, a.a. 2010-2011, come scrive Viviana Costagliola:

«Il documento in questione è un breve foglio manoscritto, datato 12 luglio 1582, compilato dal notaio Scipione Gioele per dimostrare che la cappella di Santa Margherita era effettivamente appartenuta ai Ferrillo.» – La chiesa di Santa Maria la Nova: primo saggio di una topografia storica, Anno Accademico 2019/2020, p. 168

Riporto la traduzione dal latino di alcuni passaggi interessanti del documento, a tal proposito ringrazio la dott.ssa Antonella Dentamaro che mi ha gentilmente fornito la trascrizione del testo in latino:

«alla Cappella di Santa Margherita presso l’illustre Sedile di Porto di questa città di Napoli e sopra la grande porta della detta cappella, dalla parte del detto sedile, trovammo e vedemmo le sopraddette armi o insegne scolpite [su una] lapide di marmo nel modo e nella forma, come sopra detto, disegnata e dipinta alla presenza del magnifico signore Augustino Bernallo, dottore in entrambe le leggi, e procuratore dell’illustrissima signora Lucrezia de Tufo Ursine, nipote, come nell’atto del notaio Giovanni Vincenzo de Sala, del’illustrissima signora Giulia de Oria.»

Il notaio Scipione Gioele avendo a disposizione un’immagine dipinta dello stemma della famiglia Ferrillo la confronta con quella in marmo al di sopra della porta centrale della cappella di Santa Margherita, l’esito fu che:

«tutti coloro che pretendono di avere diritto di patronato nella suddetta cappella, in quanto soggetti o in quanto mandati a nome di altri secondo gli atti. Dichiararono tutti concordi che le armi disegnate dette prima fossero veramente della illustrissima casa dei Ferrillo.»

Due giorni dopo, il 14 luglio del 1582, il notaio Scipione Gioele si recò a Santa Maria la Nova:

«Io personalmente mi sono recato nella chiesa di S. Maria la Nova di questa stessa città di Napoli sotto l’ordine di San Francesco, e in una certa cappella, posta nel corno dell’epistola dell’altare maggiore, sotto l’invocazione dell’Assunzione della Beata Vergine Maria, trovai e vidi in un certo sepolcro marmoreo le medesime armi sopra dette, disegnate del medesimo stile e scultura e di uguale forma, ecc. Unitamente all’epitaffio o all’iscrizione sottoscritta come segue: Matteo Ferrillo nobile appartenente all’ordine equestre…»

Queste ultime parole di Scipione Gioele sono sorprendentemente rilevanti, egli trova all’interno della chiesa di Santa Maria la Nova la tomba di Matteo Ferrillo riportando nel documento il suo epitaffio, del quale per brevità ho trascritto solo il suo incipit, inoltre ci dice chiaramente dove era situata la sua cappella dedicata all’Assunzione della Beata Vergine Maria costruita per volere di Matteo Ferrillo, essa era posta “nel corno dell’epistola dell’altare maggiore”:

«Il lato del vangelo (in cornu Evangelii in latino) è una zona delle chiese cristiane occidentali. Prende il nome dal luogo dove avviene la lettura del vangelo nella liturgia. Rispetto all’altare maggiore, e guardando verso questo, si trova sul lato sinistro. Il lato opposto è il lato dell’epistola (in cornu epistolae in latino), dove venivano lette le epistole, ossia le lettere del Nuovo Testamento scritte dagli apostoli ai cristiani. Guardando l’altare maggiore, il lato dell’epistola si trova sul lato destro.» – Wikipedia

A ciò aggiungo quanto scritto sempre da Viviana Costagliola nel suo testo citato:

«Nel 1998 Donato Salvatore ha proposto di identificare la cappella Ferrillo nella cappella del Crocifisso, mettendo in relazione l’iscrizione presente sul sedile di Matteo Ferrillo – nella quale si ricorda che il defunto aveva dedicato una cappella alla Virginis Assumptionis – con un passo dell’Aggiunta di Carlo de Lellis, in cui l’autore scrive che in Santa Maria la Nova vi era un’Assunzione della Vergine nella cappella a sinistra dell’altare maggiore.» – p. 167

«La convincente ipotesi avanzata da Salvatore è stata confermata da Antonella Dentamaro nel 2011, grazie ad un documento inedito ritrovato dalla studiosa presso l’Archivio Diocesano di Napoli, nel volume riguardante il beneficio della cappella di Santa Margherita, che i Ferrillo possedevano nel Sedile di Porto. Tale documento ha fornito la conferma non solo dell’identificazione della cappella Ferrillo con quella del Crocifisso, ma anche della provenienza dallo stesso vano del sepolcro e del sedile di Matteo Ferrillo, riassemblati nel chiostro di San Giacomo.» – p. 168

Riassumendo, nel 1582 la tomba di Matteo Ferrillo si trovava ancora nella cappella da lui dedicata all’Assunzione della Beata Vergine Maria, il notaio vide sulla tomba del Ferrillo le “medesime armi” disegnate nel “medesimo stile e scultura e di uguale forma” di quelle presenti sulla  cappella di Santa Margherita nella zona del Sedile di Porto, inoltre nel 1582, a circa sei anni dopo il termine della costruzione della cappella Turbolo, la tomba di Ferrillo era ancora nella sua originaria posizione.

In conclusione, ogni illazione che tende a posizionare nello stesso luogo, in un determinato periodo storico, la tomba di Ferrillo e l’epigrafe misteriosa, cadono nel nulla se valutate con i dati a nostra disposizione.

Nel chiudere questa seconda parte dell’articolo, faccio presente che il Glinni e la sua equipe ultimamente sembrano aver cambiato “di nuovo” idea su dove sia “realmente” sepolto Vlad III Tepes, a quanto pare sono ritornati all’ipotesi originaria cioè che Vlad III sia sepolto ad Acerenza, in una recente intervista Giandomenico Glinni (vedi il video seguente) ha affermato:

«Io non credo che Vlad Tepes sia stato seppellito a Napoli, non ci credo. È stato seppellito qui [ad Acerenza]» – minuto 8:55

Raffaello Glinni rincarando la dose ha poi aggiunto:

“il vero Vlad III è sepolto qui sotto [alla cattedrale di Acerenza]” – minuto 9:40

Avremo modo di esaminare le “ulteriori” prove dei Glinni nella terza ed ultima parte di quest’articolo.


Dracula nel Regno di Napoli – Parte prima
Maria Balsa la “presunta” figlia di Dracula

Dracula nel Regno di Napoli – Parte terza
L’epigrafe misteriosa della cappella Turbolo

2 pensieri su “Dracula nel Regno di Napoli – Parte seconda

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