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Dracula nel Regno di Napoli – Parte terza

L’epigrafe misteriosa della cappella Turbolo


Articolo di Francesco Pastore © Riproduzione riservata

L’epigrafe misteriosa, situata all’interno della cappella Turbolo nella chiesa di Santa Maria la Nova, è venuta alla ribalta subito dopo la presunta “scoperta” della tomba di Vlad III a Napoli. Per secoli l’epigrafe è rimasta lì al suo posto senza che nessuno vi leggesse nulla, dopo la suddetta scoperta alcuni hanno iniziato a leggere sull’epigrafe, in maniera “molto chiara”, delle parole che sembrano riguardare il principe di Valacchia Vlad III l’impalatore.

Francesco Pastore © Riproduzione riservata

L’epigrafe riporta un testo formato da una serie di parole composte con caratteri diversi, alcuni riconducibili ad alfabeti a noi conosciuti, altri del tutto estranei a qualunque lingua a noi nota. Sono stati fatti dei tentativi di lettura e/o decifrazione ma con scarsi risultati, il prof. Giuseppe Reale nell’intervista rilasciata alla rivista Fenix afferma:

“… ciò che abbiamo verificato al Dipartimento di Slavistica dell’Orientale di Napoli è che non si tratta di greco, ma è la somma di caratteri alfabetici appartenenti a diverse lingue che compongono un idioma non noto. L’ipotesi che si sta diffondendo tra gli studiosi che stanno tentando di tradurla è che su un testo linguisticamente noto sia stato inserito un codice ulteriore, che ne impedisce la lettura a chi non ne ha la chiave. In questa iscrizione linguistica quello che balza agli occhi è che è presente almeno due volte, in caratteri cirillici, il nome “Blad”.” – p. 22

Comunque, per il suddetto professore, sull’epigrafe sembra “leggibile” anche altra parola:

“C’è un’altra parola molto chiara, “Balcano”. Nel nostro gruppo di lavoro c’è però chi obietta che l’espressione “Balcani” dall’indicare una cinta montuosa a identificativo di un’intera regione sia una convenzione tardiva.” – p. 22

Va detto che le presunte “letture” dell’epigrafe non trovano conferma tra gli studiosi consultati, la rivista Città Misteriose, n°5 Settembre 2015, infatti riporta:

«Studiosi di tutto il mondo stanno cercando di decifrare la misteriosa iscrizione posta alle spalle della presunta tomba di Vlad III, ma ancora nessuno è riuscito a comprendere in quale lingua sia stata scritta.

Tutte le evidenze scientifiche affermano che, in realtà, non assume nessun significato in nessuna delle lingue conosciute. Decine di professori sono stati contattati per lo studio dell’iscrizione ma i risultati si fanno attendere. “C’è una nuova analisi che stiamo portando avanti proprio noi del Mattino” – riferisce il noto giornalista Paolo Barbuto – “stiamo cercando di scoprire se alle spalle della scritta misteriosa ci sia un’altra scritta coperta, in un alfabeto conosciuto, che ci possa dare risultanze immediate”. L’idea è che al di sotto, possa esistere un testo scritto in greco o in latino volutamente coperto da questi simboli per renderlo illeggibile.

L’analisi, quindi consentirà di vedere alle spalle del primo strato di inchiostro per capire se realmente esiste altro. All’interno della stessa, però, già ad una prima lettura sembrerebbe essere chiaro un nome: Vlad. “Forse non è vero” – precisa Barbuto – “quello che a noi sembra Vlad, o Blad, non ha risultanze in nessun alfabeto al mondo. Noi con le nostre conoscenze abbiamo unito quel poco di cirillico che conosciamo, quel poco di greco antico che abbiamo studiato a scuola e ci sembra di leggere delle parole. Secondo gli scienziati stiamo farneticando. È molto affascinate il fatto che quella scritta possa sembrarci Vlad. Aspettiamo che ce lo dica qualcuno che l’abbia studiata”.» – p. 30

Personalmente concordo con gli scienziati scettici, infatti, quello che a me non torna, è come sia possibile “leggere” sull’epigrafe dei termini in varie lingue, come il cirillico o il latino, quando è stato detto che il testo al momento è indecifrabile, e che si ipotizza addirittura che sia stato criptato!

Spesso, chi è in cerca di prove, viene condizionato dalla propria mente che “interpreta” quello che vede in base a quello che conosce, proprio come è successo al giornalista Paolo Barbuto quando afferma:

“Noi con le nostre conoscenze abbiamo unito quel poco di cirillico che conosciamo, quel poco di greco antico che abbiamo studiato a scuola e ci sembra di leggere delle parole”

Se per le immagini possiamo essere soggetti ad un illusione pareidolitica, cioè un illusione subcosciente che tende a ricondurre a forme note oggetti o profili (naturali o artificiali) dalla forma casuale:

Nuvola o cavallo? (Fonte: ipa agency)

Anche nella scrittura possiamo avere la stessa “illusione”, per fare un esempio, se scrivo:

M0L71 C0N05C0N0 VLAD 111 L’1MPALA70R3

La maggior parte dei lettori non faticherà a leggervi:

MOLTI CONOSCONO VLAD III L’IMPALATORE

Anche se nella frase ci sono dei numeri al posto di alcune lettere, la mente trova “comunque” un significato coerente a quello che leggiamo.

Non va comunque dimenticato che certe parole, che nella nostra lingua hanno un determinato significato, per altre, hanno un tutt’altro senso, mi riferisco alle parole omofone. Provo a fare un esempio con una lingua ugrofinnica che ha poco a che fare con le lingue latine, cioè il finlandese. Riporto alcuni testi dove evidenzio le parole omofone con l’italiano:

“Firman lupa lennättää tavaralähetyksiä oli saatu vihdoin kuntoon, mutta lama oli iskenyt ja asiakkaiden tilaukset olivat vähentyneet. Firma joutui leikkaamaan kustannuksiaan ja irtisanomaan työntekijöitä, mikä oli raskas pala nieltäväksi kaikille.”

“Yksi irtisanotuista työntekijöistä oli ollut veneen kuljettaja, ja firman piti nyt maksaa kalliita kustannuksia korjauksesta, koska vene oli jäänyt multaan ruton vuoksi.”

“Firman omistaja istui vino hymy kasvoillaan rattiin ja ajoi torille, jossa hän osti uuden pelin viihdykkeekseen.”

“Kotona hän avasi paketin, joka sisälsi uuden pelin. Hän oli odottanut peliä jo pitkään, ja hän päätti testata sen heti. Peli oli erittäin hauska, ja hän uppoutui siihen täysin unohtaen kaikki muut asiat.”

“Matkalla hän pureskeli hermostuneena pala karkkia, kunnes hänelle tuli mieleen multaläjä. Hän oli unohtanut siirtää sen toiseen paikkaan ennen lähtöä.”

“Illan kuluessa he päättivät järjestää arpajaiset, ja voittajalle oli palkintona suora lento lämpimään lomakohteeseen. Onnekas voittaja oli innoissaan, ja kaikki olivat iloisia ja rentoutuneita.”

“Olimme iloisia päivän onnistumisesta, mutta yhtäkkiä huomasimme, että yksi meistä oli satuttanut jalkansa. Haava oli syvä, ja veri vuoti runsaasti.”

“Saavuin kauppaan, ja sieltä löytyi juuri sopivan kokoinen grilli ja tarpeeksi multaa. Otin ne mukaani ja lähdin kotiin.”

Se ipoteticamente il finlandese fosse una lingua sconosciuta, molti potrebbero dire che, nonostante il testo sia ancora indecifrato, vi si “leggono” delle parole in italiano come:

Firma, grilli, lama, lento, lupa, peli, pala, suora, vene, veri, vino, vuoto.

Dando quindi a queste parole il significato che in italiano ben conosciamo, salvo poi essere smentiti da chi, decifrando il testo finlandese, dimostra che i termini significano tutt’altro:

Firma = azienda
Grilli = griglia
Lama = depressione
Lento = volo
Lupa = permesso
Peli = gioco
Pala = pezzo
Suora = dritto
Vene = barca
Vino = storto
Veri = sangue
Vuoto = perdita

In virtù di quanto detto, proviamo ad entrare nel merito e analizziamo alcune tra le parole “leggibili” dell’epigrafe. Iniziamo con la parola Vlad o Blad, va deciso infatti in che lingua la vogliamo leggere, se la leggiamo in lingua cirillica la B va letta V, in cirillico la lettera che viene letta come B è il carattere Б.

Considerato che il prof. Giuseppe Reale ci dice che la parola Vlad è scritta in caratteri cirillici, proviamo a raffrontare questa parola, scritta in cirillico antico e moderno, con quella dell’epigrafe:

Francesco Pastore © Riproduzione riservata

Qualcuno ha detto che il triangolo finale va letto D perché è un delta che è stato “semplicemente” rovesciato, non si capisce in base a quale criterio ma al momento diamolo per buono. Quello che stona nella lettura è palesemente la seconda lettera che “sembrerebbe” una i, in effetti a ben guardare in antico cirillico la lettera i era scritta nel seguente modo:

In seguito, nel moderno cirillico, è stata sostituita con la lettere И, anche se va detto che è ancora presente nella lingua cirillica ucraina e bielorussa (link).
Quindi volendo leggere l’epigrafe in cirillico vi “leggeremo” Viad, una parola, che io sappia, che non ha significato, al pari di tutto il resto dell’epigrafe.

Passiamo adesso alla parola “balcano”, che a detta del prof. Giuseppe Reale è “molto chiara”:

Francesco Pastore © Riproduzione riservata

Anche per la parola Balcano qualcuno può dire che la prima lettera Б è stata scritta “capovolta” coma le lettera D di Vlad, ed anche in questo caso proviamo a darla per buona, poi però abbiamo ben tre lettere che non corrispondono.

La terza lettera che sembra una C è letta come L, ma è ben diversa da quella che è presente nella parola Vlad che sembra una I, inoltre, se si fa riferimento all’alfabeto cirillico, il carattere che sembra una C, è equiparabile al seguente segno:

La Г in cirillico è letta ge o he o anche ghe (link), nulla a che vedere con la L.

Proseguendo vediamo che la quarta lettera che sembra un delta è letta C, mentre la sesta lettera che sembra una ypsilon viene letta N. Ora, con tutta la buona volontà, non si capisce quale logica ci sia dietro a queste associazioni, a me sembra più una libera interpretazione che una vera chiave di lettura, che se fosse tale, dovrebbe applicarsi a tutta l’epigrafe, ma non è così.

Per finire, prendiamo in considerazione una parola che “sembrerebbe” essere scritta in latino, sto parlando del termine “Lanova”, qualcuno vi vede un chiaro riferimento al luogo in cui si trova l’epigrafe, cioè la chiesa di Santa Maria la Nova:

Francesco Pastore © Riproduzione riservata

La prima cosa che notiamo, è che la lettura “Lanova” viene estrapolata da una parola più lunga, per fare un esempio è come se della seguente parola:

Lanovantesima

leggessimo solo le prime sei lettere.

Inoltre, la seconda lettera somiglia ad un delta che non è presente nel alfabeto latino, essa viene letta come A, e non D come in greco o cirillico.

Infine, la prima lettera che viene letta come L non lo è affatto, se ingrandiamo l’immagine, notiamo che è simile all’ultima lettera della parola nel rigo superiore, la quale somiglia chiaramente ad una T:

Francesco Pastore © Riproduzione riservata

Quindi anche la lettura “Lanova” sembra molto interpretativa e tutt’altra che chiara.

Potrei andare avanti con altri esempi, ma mi fermo a quelli che a detta di alcuni sono le letture più chiare ed evidenti. Comunque anch’io, come tanti altri, sono ansioso che l’epigrafe venga decifrata quanto prima, una delle persone che si sta cimentando in questo è Cosimo Palma dottorando in intelligenza artificiale presso l’Università di Pisa e l’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, egli ha pubblicato un interessante articolo Epigrafi Criptate – Appunti di Ricerca Sulla Misteriosa Iscrizione Nella Chiesa di Santa Maria La Nova a Napoli, 2021, nel quale afferma che:

“Un´analisi quantitativa basata sulla frequenza e distribuzione dei glifi eseguita su latino, greco attico e copto ha confermato l´ipotesi che l´epigrafe celi un testo in chiaro, ma allo stesso tempo non e risultata sufficiente a determinare la lingua d´origine.”

ed anche:

“Si constata inoltre che il rapporto tra i caratteri dell’iscrizione e alfabeti di matrice slava non superi il grado di vaga somiglianza.”

In effetti sulle “vaghe somiglianze” qualcuno ci ha costruito delle ipotesi, di certo uno dei maggiori problemi nella decifrazione dell’epigrafe è sapere quale sia la lingua in chiaro del testo celato, il latino? Il greco? Al momento non lo sappiamo.

Cosimo Palma ha pubblicato in seguito un aggiornamento in inglese dell’articolo citato, Encrypted epigraphy – the case of a mysterious inscription in the Neapolitan church of Santa Maria La Nova (2023), esso è disponibile sul sito Academia.edu (link)

Concludendo, riguardo all’epigrafe, ritengo che certe “letture” sono alquanto forzate e non supportate da alcun metodo scientifico, esse trovano appoggio solo su un’opaca “verosimiglianza” con altri termini da noi conosciuti. Inoltre, tranne Cosimo Palma, nessun studioso, anche tra quelli interpellati, ha mai prodotto un documento riportante un analisi filologica, anche preliminare, dell’epigrafe della cappella Turbolo.

Considerazione finale: è mia opinione, alla conclusione dell’intero articolo che ho suddiviso in tre parti, che l’ipotesi che Maria Balsa sia la figlia segreta di Vlad III e che questi sia sepolto a Napoli non ha alcun fondamento, tutt’al più viene buona per scriverci un fumetto fantasy come poi è stato fatto. Spero che il lettore troverà utile questo mio lavoro di ricerca durato circa un anno, che mi ha portato a visitare luoghi splendidi, visionare opere d’arte e reperti archeologici, oltre che documenti originali di grande valore storico. Ho altresì conosciuto persone competenti e disponibili ed altre purtroppo meno.

Un ringraziamento particolare va alla mia cara amica Anna Bacchi, autrice de La maledizione del sole oscurato, per il suo grande contributo nella ricerca, analisi dei dati e suggerimenti, in particolare sulla materia egizia.


Dracula nel Regno di Napoli – Parte prima
Maria Balsa la “presunta” figlia di Dracula

Dracula nel Regno di Napoli – Parte seconda
La “presunta” tomba di Vlad III e la cappella Turbolo

Dracula nel Regno di Napoli – Parte seconda

La “presunta” tomba di Vlad III e la cappella Turbolo

Articolo di Francesco Pastore © Riproduzione riservata
Ultimo aggiornamento 02/03/2023

La “presunta” tomba di Vlad III

Nella prima parte di quest’articolo abbiamo trattato la figura di Maria Balsa, che alcuni studiosi ritengono sia la “figlia segreta” di Vlad III Tepes alias Dracula – link

In questa seconda parte, invece, entreremo nel merito della notizia data da Il Mattino sul “ritrovamento” della vera tomba di Dracula, prima però è necessario dire che a distanza di un decennio questa presunta sepoltura del voivoda valacco sembrerebbe ancora non aver trovato pace. Il 23 giugno del 2012, infatti, Raffaello Glinni, uno degli studiosi, pubblicò un articolo in cui affermava che Dracula fosse probabilmente sepolto ad Acerenza:

Che la figlia abbia comunque dato sepoltura al padre ad Acerenza, visto che il corpo di Dracula, ucciso dai Turchi, forse decapitato, non è mai stato trovato?” – Fonte

A distanza di appena tre mesi da questo “scoop” ecco arrivare un colpo di scena, il Glinni e la sua equipe, infatti, in un articolo pubblicato il 21 settembre 2012, spostano la loro attenzione da Acerenza a Napoli e, coinvolgendo le SS di Himmler, convergono sulla Basilica di Santa Maria del Carmine Maggiore come luogo della presunta sepoltura di Vlad III Tepes. (link).

Circa due anni di pace per le spoglie del voivoda valacco ma con l’articolo de Il Mattino del 11 Giugno 2014, oggetto di questo articolo, ecco arrivare un altro colpo di scena. Il Glinni e la sua equipe, infatti, si ricredono sulla Basilica di Santa Maria del Carmine Maggiore e convergono tutte le loro attenzioni sulla Chiesa di Santa Maria la Nova.

Le spoglie di Vlad III Tepes finalmente riposano in pace? No, perché come si vedrà alla fine di questa seconda parte dell’articolo, il Glinni e la sua equipe ultimamente hanno provveduto a rinverdire la loro narrazione con un ennesimo colpo di scena.

Dopo questo doveroso preambolo, entriamo nel merito della notizia data da Il Mattino nel Giugno 2014, in particolare andiamo ad esaminare i “nuovi indizi” che hanno portato gli studiosi ad avere la “certezza” che la tomba di Vald III sia propria quella di Matteo Ferrillo:

«Ma perché tante certezze? Il marmo, che appartiene alla tomba di Ferrillo, il «genero» di Dracula, è denso di riferimenti che non apparterrebbero alle spoglie dell’uomo che dovrebbe essere lì dentro. E qui la realtà diventa romanzo, almeno finché la scienza non dirà che è tutto vero: «Guardate i bassorilievi – spiega raggiante Glinni – la rappresentazione è lampante. Ricordate che il conte si chiamava Dracula Tepes: vedete che qui c’è la rappresentazione di un drago, Dracula appunto, e ci sono due simboli di matrice egizia mai visti su una tomba europea. Si tratta di due sfingi contrapposte che rappresentano il nome della città di Tebe che gli egiziani chiamavano Tepes. In quei simboli c’è “scritto” Dracula Tepes, il nome del conte. C’è bisogno di altre conferme?» – Link

Tomba Matteo Ferrillo – Francesco Pastore © Riproduzione riservata

Prima di iniziare nell’analizzare le “prove” del Glinni, diamo qualche informazione su Matteo Ferrillo e la sua tomba attribuita a Vlad III Tepes.

Matteo o “Mazzeo” Ferrillo nacque nella prima metà del XV secolo, membro di una famiglia patrizia napoletana che fondò nel XIV secolo la chiesa di Santa Margherita de’ Ferrillis, successivamente nel 1586, l’arcivescovo Annibale di Capua la concesse ai cittadini tedeschi residenti a Napoli che la dedicarono a Santa Maria dell’Anima, titolo della loro chiesa nazionale di Roma. Matteo Ferrillo fu ascritto al “sedile” (istituzione amministrativa della città di Napoli) di Porto, fu un importante personaggio alla corte del re di Napoli, tanto che quando partecipò nel 1494 alla cerimonia di incoronazione di Alfonso II d’Aragona resse l’elmo del sovrano.

Nel 1499 Matteo Ferrillo fece costruire nella chiesa di Santa Maria la Nova in Napoli il sepolcro gentilizio, oggi presente nel chiostro piccolo del complesso monumentale. Nella parte superiore della tomba leggiamo il seguente epitaffio:

MATTHEUS FERRILLUS NOB. ET EQUESTRIS ORDINIS INSIGNIS MURI COMES ALPHONSI II REGIS ARAG. A CUBICULO PRIMUS EIUSQ. DUM PATERENTUR ANIMI GUBERNATOR POSTERITATI CONSULENS SACELLUM HOC VIRGINIA ASSUMPTIONI DICATUM VIVENS SIBI ET SUI F.

Alla base della tomba troviamo la sua datazione:

AN. A CHRISTI NATALIBUS MCCCCLXXXXIX

In sostanza dalle iscrizioni si evince che Matteo Ferrillo fu un nobile appartenente all’ordine equestre ed insignito Conte di Muro dal re Alfonso II d’Aragona, Ferrillo fece costruire “questo sacello” (=cappella), dedicato all’Assunzione della Vergine, per se stesso e i suoi (=eredi/familiari) nell’anno 1499 dalla nascita di Cristo.

L’epitaffio ci dice dunque che la tomba di Ferrillo si trovava originariamente in una cappella dedicata all’Assunzione della Vergine, all’interno del Complesso di Santa Maria la Nova. Negli ultimi anni è stato trovato un importante documento risalente alla fine del 1500 dove ci viene “svelato” dove si trovava questa cappella, ma ne parleremo più avanti, adesso andiamo ad esaminare le “prove” riportate dal Glinni sia nell’articolo de Il Mattino che nella rivista Fenix

Il nome Dracula Tepes sulla tomba di Ferrillo

Drago = Dracula?

Francesco Pastore © Riproduzione riservata

Francesco Pastore © Riproduzione riservata

“la rappresentazione è lampante. Ricordate che il conte si chiamava Dracula Tepes: vedete che qui c’è la rappresentazione di un drago, Dracula appunto” – Raffaello Glinni

Per iniziare notiamo subito un’incongruenza, lo studioso fa diventare il “voivoda” Vlad III Tepes Dracula un “conte”, come il personaggio del romanzo di Bram Stoker, trovo inoltre singolare il “metodo di lettura” del Glinni che interpreta delle figure riportate sulla tomba come se fossero dei rebus di una qualsiasi rivista di enigmistica, ma andiamo oltre, proviamo ad utilizzare questo “metodo” per costatare se è possibile leggere sulla tomba il nome “Dracula Tepes”.

Provando ad analizzare la su riportata immagine, ai lati dei due ibridi alati con testa di donna, che Glinni asserisce essere “sfingi”, vediamo che non ci sono due draghi bensì due esseri ibridi alati con testa molossoide o di pantera, tipici dei più che nutriti bestiari medievali visibili in moltissime chiese anche precedenti di secoli quella di Santa Maria la Nova.

Ricordo che la realizzazione della tomba di Ferrillo è stata attribuita allo scultore lombardo Jacopo della Pila, un conterraneo di Giovanni Pietro da Cemmo, un pittore che visse ed operò tra il XV e il XVI secolo, i due sembrano avere un’influenza stilistica comune se raffrontiamo il bassorilievo del “Drago” della tomba di Ferrillo ed una grottesca di Giovanni Pietro da Cemmo:

Fonte grottesca: Bernardo Zanini, Il simbolismo alchemico di Pietro da Cemmo, in Insula Fulcheria” 42/2012, p. 167

Ibridi alati risalenti al 1505 (link), simili a quelli della tomba di Ferrillo, li ritroviamo ad esempio sulla base dei piloni porta pennoni in piazza San Marco a Venezia:

Quindi quello che vediamo non è certo un drago ma un ibrido con una testa molto simile ad un cane molosso od a un felino.

Tebe = Tepes?

Riguardo alla lettura del termine Tepes il Glinni afferma:

“…due sfingi contrapposte che rappresentano il nome della città di Tebe che gli egiziani chiamavano Tepes”

Francesco Pastore © Riproduzione riservata

Similmente nel video di Focus al minuto 06:47 Raffaello Glinni afferma:

“Proseguendo nella lettura del glifo si legge un drago, due sfingi contrapposte e dei papiri, si legge Drago Tepes, perché proprio la città di Tebe o Tepes veniva indicata con due sfingi contrapposte.”

Purtroppo per il Glinni gli Egizi non indicavano la loro città di Tebe con due sfingi contrapposte, sarebbe interessante sapere da dove egli prende questa informazione. Gli Egizi chiamavano la loro città Waset, gli antichi greci Thēbai, i geroglifici con cui gli Egizi rappresentavano la città di Waset erano i seguenti:

I geroglifici si traslitterano w3st che significa “Città dello scettro“, la città nel corso dei secoli venne conosciuta anche con altri nomi come “la città di Amun”, “città  del sud”, “Heliopolis del sud”, ma anche in questo caso, nei diversi nomi della città, non è presente un segno geroglifico a forma di sfinge. In epoca tolemaica, invece, quando i sovrani egizi nativi furono sostituiti da quelli di origine greca, il nome della città fu ellenizzato diventando Θῆβαι (Thēbai) e si potrà vedere che Θῆβαι è scritto con la lettera greca “β” (b) e non con la lettera greca “π” (p).

Inoltre le “sfingi” della tomba di Ferrillo sono ben differenti da quelle egizie, esse sono alate e hanno una coda sireniforme per cui non hanno nulla a che vedere con le sfingi egizie con corpo di leone e testa umana che, con quelle con corpo di leone e testa di ariete, caratterizzano il viale che a Tebe collega il tempio di Luxor con quello di Karnak.

In breve, non esiste alcuna relazione tra le “sfingi” raffigurate sulla tomba di Ferrillo e il nome della città egiziana di Tebe.

Delfini = Dobrugia?

A supporto della “lettura” Dracula Tepes sulla tomba di Ferrillo il Glinni interpreta i due delfini posti al di sopra delle “sfingi” come richiamo alla regione rumena della Dobrugia:

Fonte: la citata rivista Fenix, p. 16

Francesco Pastore © Riproduzione riservata

«…sulla stessa tomba compare il simbolo della Dobruja, una zona della Romania attigua alla Valacchia, che ricadeva tra le terre di cui fu principe Vlad Dracula. In una cronaca del 1510 la presunta figlia di Dracula, viene indicata quale “figlia del Voivoda di Misia”, che corrisponde alla “Misia Romana”, cioè il sud della Romania in cui è sita proprio la regione della Dobruja e il cui stemma sono due delfini accoppiati. Proprio lo stemma presente sia sulla tomba di Napoli che nella cripta di Acerenza. È un altro indizio che appartenga a qualcuno che aveva strettissimi rapporti con la Romania e le zone governate da Vlad Tepes, non avendo alcun senso per un Ferrillo (suocero della Balsa) utilizzare sulla tomba di famiglia il simbolo della Dobruja. Detta zona fu anche teatro di una delle più note vittorie di Dracula sui Turchi, per cui la presenza dello stemma potrebbe avere un valore celebrativo indicandolo quale Signore e Vincitore di Dobruja, il che è in linea con il guerriero rappresentato sulla parte superiore della Tomba, col simbolo dell’ordine del Dragone, che nulla ha a che fare con la famiglia dei Conti Ferrillo.» – Fenix, p. 16

La Dobrugia fu veramente teatro di una delle più note vittorie di Vlad? In realtà no.

Vlad III nella zona dell’attuale Dobrugia svolse delle incursioni preventive prima di avere uno scontro diretto con Maometto II, un resoconto di questo, ci giunge dallo stesso Vlad III in una lettera datata 11 febbraio 1462 al re di Ungheria Mattia Corvino, con essa Vlad III comunicava al re di aver rotto la pace con il sultano Maometto II:

“Ho ucciso contadini uomini e donne, vecchi e giovani, che vivevano a Oblucitza e Novoselo, dove il Danubio sfocia nel mare, fino a Rahova, che si trova vicino a Chilia, dal basso Danubio fino a luoghi come Samovit e Ghighen. Abbiamo ucciso 23.884 turchi senza contare coloro che abbiamo bruciato nelle case o i turchi le cui teste sono state tagliate dai nostri soldati… Quindi, Vostra Altezza, dovete sapere che ho rotto la pace con lui… [il Sultano]” – Florescu-McNally, Dracula: Prince of many faces – His life and his times, Little, Brown and Company, Boston, MA, 1989.

È lo stesso Vlad III quindi a invalidare quanto sostenuto dalla teoria perché, scrivendo a Mattia Corvino che con quelle sue incursioni avrebbe rotto la pace con il sultano, il voivoda evidenzia che in Dobrugia non ci fu nessun scontro frontale tra il suo esercito e quello di Maometto II perché quell’incursione fu fatta in un periodo di pace.

Inoltre, come si può notare nell’immagine della rivista Fenix, i due delfini effigiati sulla tomba differiscono da quelli riprodotti sullo stemma della Dobrugia (le loro teste, infatti, sono rivolte verso l’esterno mentre quelle nello stemma sono rivolte all’interno). Aggiungo che il simbolo dei delfini erano molto comuni nelle espressioni artistiche sia antiche che rinascimentali, soprattutto su capitelli, in motivi ornamentali a candelabra e in grottesche. Meraviglia molto, perciò, dato che al team degli studiosi sostenitori dell’ipotesi si sono aggiunti anche esperti di arte, che nessun voce si sia levata fuori dal coro per tacitare quell’associazione con la “vittoria” di Vlad III in Dobrugia.

Se questi esperti di arte avessero ispezionato anche in modo superficiale il chiostro piccolo, avrebbero visto una rappresentazione di delfini simile a quella che per l’ipotesi rappresenterebbero lo stemma della Dobrugia, avrebbero inoltre costatato che questi delfini si trovano in un contesto che non ha nulla a che fare con i Ferrillo, né tanto meno con Vlad III Tepes.

Entrata della sagrestia dal chiostro piccolo
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Anche con i “delfini” notiamo, come per il “drago” in precedenza, una grande somiglianza di stile tra il bassorilievo realizzato da Jacopo della Pila e una grottesca di Giovanni Pietro da Cemmo.

Fonte grottesca: Bernardo Zanini, Il simbolismo alchemico di Pietro da Cemmo, in Insula Fulcheria” 42/2012, p. 164

Per ultimo, riguardo l’associazione dei delfini allo stemma della Dobrugia, va detto che all’epoca di Vlad III non esisteva né lo stemma né la regione. Le provincie storiche che suddividevano il territorio rumeno in quel tempo erano tre: Valacchia, Moldova e Transilvania. Inoltre lo stemma della Dobrugia fu introdotto da Gheorghe Asachi solo nel 1816, non poteva quindi esserci al tempo di Vlad III:

«Il primo simbolo della Dobrugia, rappresentata prima come la regione delle foci del Danubio, era costituito da due delfini, introdotti nel circuito araldico da Gheorghe Asachi nel 1816. La consacrazione araldica fu fatta attraverso lo stemma della Romania nel 1872, dove due delfini d’oro che si fronteggiano, rappresentano la costa del Mar Nero come arma di rappresentazione. La conclusione necessaria a questo riguardo è che nella nostra storia ci sono state solo tre province storiche vere e proprie, che hanno anche acquisito l’individualità statale: Tara Românească [Valacchia], Moldova e Transilvania, riconoscendo il loro status di principati (grande principato della Transilvania). È, quindi, artificiale e ingiustificato che sullo stemma appaiano rappresentate con i propri simboli Oltenia, Banat e Dobrugia e non appaiono Bessarabia, Bucovina, Crișana e Maramureş. Tanto più che Bessarabia e Bucovina hanno partecipato come entità politiche separate al movimento nazionale e alla lotta per la Grande Unione. Riteniamo normale che le distinte regioni storiche rimangano raggruppate nelle tre province storiche vere e proprie e siano rappresentate dai loro simboli, come segue: Tara Românească [Valacchia] con Muntenia, Oltenia e Dobrugia; Moldavia con Bessarabia e Bucovina; Transilvania con Banat, Crișana e Maramureş» – Ioan Silviu Nistor – Stema României, istoria unui simbol; studiu critic, Editura Studia, 2003

Viene quindi meno ogni tentativo di collegare i delfini della tomba di Ferrillo a Vlad III Tepes.

Le tre stelle dello stemma Ferrillo

In una delle mie visite a Santa Maria la Nova un responsabile del complesso mi fece notare un particolare sulla tomba di Ferrillo, la stella centrale delle tre che compaiono sullo stemma della famiglia Ferrillo è capovolta rispetto alle altre, questo secondo lui aveva un significato particolare, ad esempio che poteva indicare che lì ci sia sepolto un “personaggio scomunicato”:

Francesco Pastore © Riproduzione riservata

Ovviamente questa è solo una congettura del suddetto responsabile che non trova riscontri, tra l’altro sempre nel piccolo chiostro dove si trova la tomba di Ferrillo c’è un altro stemma di un’altra famiglia, posto al disopra della porta d’ingresso della sagrestia, dove si può vedere una stella capovolta:

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Di questa però il responsabile non ha dato “spiegazioni”. Comunque anche ad Acerenza alcuni stemmi della famiglia Ferrillo hanno delle stelle capovolte e non necessariamente quella centrale:

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Come si può vedere la direzione delle punte delle stelle non seguiva una regola precisa, non penso quindi che si debba trovare un particolare significato per la diversa direzione della stella sullo stemma dei Ferrillo.

Riguardo le tre stelle comunque Raffaello Glinni ha però ipotizzato una “lettura” alternativa:

«Com’è noto, Stoker fu membro dell’organizzazione ermetica Golden Dawn e ben conosceva i simboli egiziani (scrisse un libro su un’antica regina egiziana con una storia molto simile al film “La Mummia”) e ciò anche per aver frequentato il padre di Oscar Wilde, noto professore universitario e celebre egittologo.

Il simbolo delle tre stelle, presente sul blasone iscritto sulla tomba Napoletana è il geroglifico che indica: colui che non muore.

Nel Blasone di Napoli la stella centrale è volutamente rovesciata (diventa il simbolo del diavolo e Dracula vuol dire anche Diavolo) e ciò ad indicare la sepoltura di qualcuno che ha avuto problemi con la Chiesa. Coincidenze? Di sicuro Stoker vide la tomba di Napoli e ne decifrò le scritte egiziane, lì utilizzate com’era uso del tempo dal Conte Ferrillo (grande esperto del settore chiamato per questo il conte Archeologo) ed è da domandarsi come mai lo scrittore prese un treno proprio per l’entroterra lucano.» – link

Vediamo che anche il Glinni ritiene che la stella centrale dello stemma dei Ferrillo sia “volutamente rovesciata” per indicare il simbolo del diavolo, ma come abbiamo visto in precedenza la cosa non è scontata, anzi trova “applicazione” sua altri stemma come quello sulla porta della sagrestia che affaccia sul chiostro piccolo di Santa Maria la Nova.
Sul fatto che Bram Stoker sia stato un membro dell’organizzazione ermetica Golden Dawn ci sono molti dubbi tra gli studiosi. Il libro di Stoker che parlerebbe di un’antica regina egizia si intitola The Jewel of Seven Stars (Il gioiello delle sette stelle) pubblicato nel 1903.

Il Glinni afferma che “Il simbolo delle tre stelle” è il geroglifico che indica “colui che non muore”, aggiunge inoltre che queste “scritte egiziane” erano d’uso essere utilizzate dal conte Ferrillo. Forse a qualcuno non sfuggirà che quanto detto dallo studioso risulta essere una scoperta straordinaria: all’epoca del conte Ferrillo si conosceva già il significato dei geroglifici egizi!

Il conte Ferrillo, o chi per esso, avrebbe riportato sulla tomba il geroglifico delle tre stelle conoscendone il significato che secondo Glinni è “colui che non muore”, inoltre Stoker secoli dopo decifrò questo ed altre “scritte egiziane” presenti sulla tomba di Ferrillo, ma quanto c’è di vero in tutto questo? Praticamente niente!

Tutti sanno che i geroglifici egizi furono tradotti per la prima volta nel 1822 da Jean François Champollion, questo viene insegnato addirittura sin dalle scuole primarie, sembra quindi molto “improbabile” che alla fine del 1400 qualcuno conoscesse la lettura dei geroglifici andata persa molti secoli prima. Ma a netto di tutto questo, veramente il geroglifico delle tre stelle significa “colui che non muore”?

La risposta è no perché gli Egizi non avevano nessun “simbolo delle tre stelle” in quanto un segno ripetuto tre volte per loro indicava soltanto un normale plurale perché lo esprimevano in tre modi. Il primo, appunto, ripetendo il segno tre volte, il secondo aggiungendo al segno rappresentato tre trattini verticali e il terzo, più raro, aggiungendo al segno rappresentato tre cerchietti. Di conseguenza nel caso di “stelle” avremmo il segno della stella (N14 della lista di Gardiner) ripetuto tre volte, il segno della stella con tre trattini o, in casi molto più rari, con tre cerchietti.

Come è possibile arrivare, allora, al concetto per gli Egizi indicante un’immortalità collegata alle stelle?

Semplicemente pensando a chi per questo popolo non sarebbe mai morto e quindi al sovrano il cui spirito, una volta deceduto, sarebbe salito al cielo e si sarebbe trasformato in una stella circumpolare cioè una stella che non tramonta mai per cui una stella “che non muore”.

Fonte: Wikipedia

In base quindi a quanto appena scritto e riprendendo l’affermazione del Glinni in cui parla al singolare “Il simbolo delle tre stelle, presente sul blasone iscritto sulla tomba napoletana è il geroglifico che indica: colui che non muore”, sul blasone per indicare “colui che non muore” sarebbero dovuti essere presenti una sola stella e non tre, i segni j.ḫm, participio attivo imperfettivo di ḫm (ignorare, non conoscere) e sk significante “distruzione” quindi letteralmente “ignorante la distruzione”, “non conoscente la distruzione” da cui “stella indistruttibile”, “stella imperitura” e cioè stella circumpolare.

j.ḫm-sk

Un chiaro esempio possiamo vederlo dai Testi delle Piramidi di Kurth Sethe – Utterance 215 c – Unis.

Traduzione:

Le tue orecchie sono i figli gemelli di Atum, oh indistruttibile (o ignorante oppure non conoscente la distruzione). I tuoi occhi sono i figli gemelli di Atum, oh stella ignorante (o non conoscente) la distruzione (oppure stella indistruttibile o imperitura per cui stella circumpolare).

Volendo mettere sul blasone tre stelle, indicanti un plurale, sarebbero dovuti essere presenti anche i segni j.ḫmw participio attivo imperfettivo di ḫm (ignorare, non conoscere) e sk significante “distruzione” quindi letteralmente “ignoranti la distruzione”, “non conoscenti la distruzione” da cui “stelle indistruttibili”, “stelle imperiture” e cioè stelle circumpolari.

j.ḫmw-sk

Un esempio possiamo vederlo sempre dai Testi delle Piramidi di Kurth Sethe – Utterance 268 – Unis – Pepi II.

Traduzione In entrambe le righe:

“Il re guida (le) stelle ignoranti la distruzione (o non conoscenti la distruzione o indistruttibili per cui stelle circumpolari)

Si potrà notare quindi che, volendo usare tre stelle indicanti un plurale, il Glinni pur di supportare la sua interpretazione ad personam intanto avrebbe dovuto tradurre al plurale per cui non “colui che non muore” bensì “coloro che non muoiono” ma, sfortunatamente per lui, sul blasone in oggetto mancherebbero, guarda caso, proprio tutti gli altri segni geroglifici indicanti per gli Egizi il concetto di immortalità.

Stando così le cose, perciò, se il “conte Archeologo” conosceva il significato dei geroglifici egizi e immortalò sul suo blasone solo tre stelle volle semplicemente scrivere “Stelle”.

Ultimamente Raffaello Glinni con la pubblicazione del suo articolo Il mito di Dracula nel Sud Italia e la strada delle stelle (In Vlad Una leggenda napoletana, gennaio 2023) pp. 93-99, ha cambiato versione su come interpretare le tre stelle, non significano più “colui che non muore” ma rappresentano Orione che a suo dire è “colui che non muore”:

«Sullo stemma dei Ferrillo vi sono raffigurate tre stelle, simbolo di Orione, ovvero “colui che non muore”. Secondo l’esperta di astronomia Annabella Buonomo, la simmetria del blasone risulta perfettamente inserita tra la strada delle stelle di Orione, che convergono guarda caso nella costellazione del drago, e la stella Aker. Come nei miti Egiziani, che l’esoterista Stoker ben conosceva.» – p. 99

Il fatto che le tre stelle della cintura di Orione siano un elemento di spicco di questa costellazione, non significa che vanno giocoforza identificate con quelle dello stemma dei Ferrillo, se si scorre il solo elenco degli stemmi araldici delle famiglie nobili napoletane, possiamo vedere decine e decine di stemmi riportanti tre stelle, dovremmo anche per tutti questi ricondurli a quelle di Orione?

Come ho detto il simbolo della stella e il suo multiplo era molto comune nell’araldica come ci dice G. Crollalanza in Enciclopedia araldico-cavalleresca, Pisa 1876-77:

«Le stelle sono tra le figure più diffuse dell’araldica; ed è naturale che una figura sì bella e da tutti  conosciuta sia stata adottata da tante famiglie. In Lombardia e Toscana erano un tempo contrassegno dei Guelfi; mentre in Romagna tre stelle in capo dimostravano che il possessore del l’arma era Ghibellino. In Francia le stelle nell’armi furono moltiplicate dai cavalieri dell’ordine della Stella, e in Inghilterra v’ha chi dice fossero un distintivo dei cavalieri della Giarrettiera e del Bagno.  Un capo d’azzurro o di rosso, caricato di tre stelle d’argento o d’oro, è più che comune nei blasoni francesi; negli inglesi serve spesso di brisura dei quartogeniti e dei loro discendenti.» – p. 561

Voler collegare le tre stelle dello stemma dei Ferrillo con quelle di Orione e solo un mero esercizio di fantasia che non trova alcun riscontro in nessun testo d’araldica.

La cappella Turbolo

La cappella Turbolo, detta anche della “Immacolata Concezione”, è situata a destra del cappellone di San Giacomo della Marca in Santa Maria la Nova a Napoli, alla parete sinistra della cappella vi è il sepolcro dei titolari, i coniugi Bernardino Turbolo e Giovanna Rosa,  sulla parete frontale, in mezzo alle statue di San Francesco d’Assisi e San Bernardino da Siena, vi è la Vergine Immacolata con al di sopra un Padre Eterno benedicente.

Dai documenti a disposizione risulta che la costruzione della cappella Turbolo non avvenne prima del 25 ottobre 1572, data in cui risale il testamento di Bernardino Turbolo che, dopo aver nominato eredi universali la moglie Giovanna Rosa e i figli Annibale, Giovan Battista e Giovan Gerolamo Turbolo, impose:

che i detti suoi figli sono tenuti a far costruire una cappella dentro la detta chiesa di S. Maria la Nova di Napoli, e per la sua costruzione spendessero mille ducati di Carlini” –

Alessandro Grandolfo – La decorazione scultorea della Cappella Turbolo in Santa Maria la Nova a Napoli, p. 204

La cappella fu portata a termine in circa quattro anni, inoltre nel 1576 ebbe un particolare privilegio da parte del papa:

«Nel 1576 papa Gregorio XIII concesse un privilegio di indulgenza alla cappella e i Turbolo fecero apporre due iscrizioni commemorative, una in lingua greca e l’altra latina, proprio ai lati dell’altare. L’ornamentazione marmorea dell’intera cappella, sepolcro compreso, volse verosimilmente a conclusione verso il 1583, quando gli eredi Annibale e Giovan Gerolamo Turbolo versarono un pagamento di ottanta ducati, di cui però ignoriamo la causale, a favore del marmoraro Fabrizio di Guido» –

Alessandro Grandolfo – La decorazione scultorea della Cappella Turbolo in Santa Maria la Nova a Napoli, p. 206

Alessandro Grandolfo in riferimento alle due iscrizioni commemorative, una in lingua greca e l’altra in latino, cita in nota Gaetano Rocco, Il convento e la chiesa di Santa Maria La Nova, 1927, p. 259, che riporta:

«Ai due lati dell’altare, in due grandi lapidi, si leggono due iscrizioni, l’una greca, l’altra latina, delle quali risulta che detto altare gode il privilegio delle indulgenze come quello di S. Gregorio a Roma.»

Purtroppo il Rocco e chi lo ha assecondato nella sua citazione cadono in alcuni errori non proprio veniali, se da una parte si conferma che l’iscrizione in latino posta a sinistra è riportata su una lapide di marmo quella a destra risulta essere invece un’epigrafe, tra l’altro nemmeno in greco!

Una sezione dell’epigrafe
Francesco Pastore © Riproduzione riservata

Se ad un primo sguardo alcuni caratteri riportati sull’epigrafe possono assomigliare a quelli greci molti altri non lo sono, considerata l’erudizione di Gaetano Rocco risulta un mistero sul perché la ritenesse scritta in greco, tra l’altro nel suo testo ha riportato la trascrizione solo del testo in latino guardandosi bene dal trascrivere quella in “greco”.

Comunque sull’epigrafe, che ad oggi risulta ancora indecifrata, qualcuno vi legge alcune parole tra cui “Vlad”, da qui il collegamento a Vlad III Tepes e di conseguenza alla tomba di Ferrillo. Qualcuno ha iniziato ad ipotizzare che prima che i Turbolo costruissero la loro cappella l’epigrafe misteriosa era già lì presente, e “probabilmente” anche la tomba di Ferrillo si trovava in quel luogo, salvo poi essere spostata quando i Turbolo iniziarono i lavori, lasciando però intatta l’epigrafe al suo posto. Questa ipotesi mi fu spiegata da un responsabile del complesso monumentale di Santa Maria la Nova, tra l’altro il prof. Giuseppe Reale in un suo articolo Il Codice la Nova, pubblicato sulla rivista rumena curata da Mircea Cosma Cei ce ne-au dat nume- Vlad Tepes, nr. 8/2022, ipotizza la presenza di allestimenti preesistenti riadattati al progetto della nuova cappella dei Turbolo.

«la raffigurazione odierna non esclude che vi possano essere state altre intitolazioni della preesistente cappella, che doveva avere un aspetto architettonico presumibilmente diverso da quello odierno, come emergerebbe dalla semplice osservazione del pavimento marmoreo, attraversato da linee perpendicolari, in cui, tuttavia, emerge la mancanza di lastre omogenee sulla parete destra, in corrispondenza all’iscrizione oggetto delle nostre indagini, e sia per un adattamento di una botola di accesso alla terra santa sottostante, in corrispondenza del monumento funebre dei Turbolo sulla parete sinistra, quasi a conferma di un allestimento preesistente e riadattato al progetto della nuova cappella gentilizia.» – p. 8 (cfr.  Vlad.Una leggenda napoletana, Phoenix Publishing, 2023, p. 22)

L’articolo del prof. Giuseppe Reale è stato ripubblicato in Vlad Una leggenda napoletana, Phoenix Publishing, gennaio 2023, pp. 15-33

Aggiungo inoltre che lo stesso prof. Giuseppe Reale, nell’intervista alla rivista Fenix, ipotizza che la cappella Turbolo poteva in precedenza essere stata la sede della tomba di Ferrillo:

Le fonti dicono che la tomba [di Ferrillo] fosse collocata nella Cappella dell’Assunta, che però non è indicata né in disegni, né in alcuna altra documentazione. Dove fosse ubicata prima questa tomba non lo si sa con certezza, ma credo, come le ho detto, che abbiamo individuato il luogo, la Cappella Turbolo. (…) Incominciamo a pensare che la tomba dei Ferrillo sia stata spostata da lì proprio a causa dei lavori voluti e finanziati dai Turbolo. Se questo fosse vero, indicherebbe che la tomba di Ferrillo dove è oggi non contiene nulla al suo interno. (…) Dunque la sepoltura è sotto la pavimentazione, nel cimitero sottostante, e il corpo del proprietario/a cui apparteneva il complesso marmoreo dei Ferrillo deve essere ancora nel luogo originario. Le offro un’anteprima, notizia di qualche giorno fa, nella cripta dei Turbolo, lì dove crediamo fosse situata l’opera tombale in esame, abbiamo trovato al di sotto della pavimentazione una bara con l’iscrizione “F.M.” che potrebbe stare per Matteo Ferrillo, ma ripeto, per ora non c’è nulla di accertato. – pp. 22-23

Stando quindi alla suddetta ipotesi, alla parete destra della cappella Turbolo dove vi è rappresentato il loro stemma di famiglia:

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doveva in precedenza esservi un’altra tomba, in base alle indicazioni del prof. Reale, questo lo si intuirebbe, osservando il pavimento marmoreo alla base della parete destra:

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Inoltre, secondo il prof. Reale, un indizio di un pavimento preesistente, lo vediamo nell’adattamento della botola di accesso alla terra santa sottostante, in corrispondenza del monumento funebre dei Turbolo sulla parete sinistra:

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Seguendo quindi la suddetta ipotesi e il prof. Reale il pavimento era già presente prima della costruzione della cappella Turbolo, la famiglia avrebbe quindi deciso di non rimuoverlo ma di modificarlo in base alle loro esigenze, vedi immagine modifica botola.

In base alle mie ricerche l’ipotesi che l’attuale pavimento alla cappella Turbolo faceva parte di una precedente cappella risulta molto discutibile, mentre per quanto riguarda l’ipotesi che la tomba di Ferrillo si trovasse in precedenza in quel luogo prima di essere spostata nel chiostro piccolo, viene smentita da un documento notarile scoperto qualche anno fa dalla storica dell’Arte dott.ssa Antonella Dentamaro.

Ipotesi del pavimento preesistente

Se si guarda con attenzione il pavimento della cappella Turbolo, si possono notare dei “rattoppi” atti ad aggiustare delle asimmetrie, che sarebbero ingiustificate in un disegno di un pavimento di un progetto primario, mi riferisco in particolare a quelle asimmetrie che vediamo verso il centro del pavimento non certo a quelle sotto le pareti, eccone un esempio:

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Nell’immagine si vede un’aggiunta di un pezzo di marmo nella cornice di una lastra, esso infatti manca in quella della lastra/botola, che è specularmente posta sul lato opposto della cappella. Questo potrebbe far pensare che il pavimento fosse di un’altra cappella e che è stato riadattato in seguito in questa, oppure, molto probabilmente, che il pavimento è quello fatto posizionare dai Turbolo e che nel corso dei secoli abbia subito danneggiamenti tali da essere poi rimosso del tutto. In seguito, quando il pavimento è stato restaurato, la sua disposizione non rispecchiava più quella in origine, da qui i piccoli aggiustamenti.

Che il pavimento marmoreo della cappella Turbolo fosse stato completamente rimosso lo possiamo vedere dalle foto del libro di Gaetano Rocco, Il convento e la chiesa di S. Maria La Nova di Napoli del 1927:

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Dalla comparazione delle foto possiamo vedere che oltre alla presenza di balaustre attualmente assenti, il pavimento grezzo senza i marmi della cappella Turbolo era allo stesso livello di quello del Cappellone della Marca, oggi il pavimento della cappella lo vediamo rialzato fino alla base delle allora balaustre, possiamo inoltre vedere lo scalino sotto l’altare molto più alto rispetto a quello di adesso, infine si vede la fossa al centro della cappella priva della lastra marmorea con lo stemma della famiglia Turbolo.

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Quest’altro raffronto mostra la base della tomba di Bernardino Turbolo e della moglie Giovanna Rosa, si può notare in che stato disastroso si trovava nel 1927 la cappella, si può vedere una grossa lastra appoggiata alla base della tomba, pezzi di balaustre ed altro ancora.

Considerato quanto sopra, delle “imperfezioni” del pavimento non possono essere indicate come indizi o prove di una sua preesistenza, quanto meno chi afferma ciò dovrebbe indagare su chi e quando ha riposizionato il pavimento dopo il 1927, anche per capire se è stato usato lo stesso materiale della cappella e/o altro materiale di risulta di altre cappelle.

Ipotesi della tomba Ferrillo posizionata accanto all’epigrafe misteriosa

Come ho detto in precedenza, mi è stato ipotizzato che la tomba di Ferrillo poteva in origine essere posizionata accanto all’epigrafe misteriosa dove alcuni vi leggono la parola “Vlad”, questo sarebbe una simbiosi perfetta per chi afferma che nella tomba di Ferrillo in realtà vi è sepolto Vlad III Tepes, comunque sia questa ipotesi trova la sua smentita in un documento notarile inedito, scovato da Antonella Dentamaro e inserito nella sua tesi di laurea, Ricerche su Jacopo della Pila e i suoi committenti, tesi di laurea magistrale, relatore prof. Francesco Caglioti, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, a.a. 2010-2011, come scrive Viviana Costagliola:

«Il documento in questione è un breve foglio manoscritto, datato 12 luglio 1582, compilato dal notaio Scipione Gioele per dimostrare che la cappella di Santa Margherita era effettivamente appartenuta ai Ferrillo.» – La chiesa di Santa Maria la Nova: primo saggio di una topografia storica, Anno Accademico 2019/2020, p. 168

Riporto la traduzione dal latino di alcuni passaggi interessanti del documento, a tal proposito ringrazio la dott.ssa Antonella Dentamaro che mi ha gentilmente fornito la trascrizione del testo in latino:

«alla Cappella di Santa Margherita presso l’illustre Sedile di Porto di questa città di Napoli e sopra la grande porta della detta cappella, dalla parte del detto sedile, trovammo e vedemmo le sopraddette armi o insegne scolpite [su una] lapide di marmo nel modo e nella forma, come sopra detto, disegnata e dipinta alla presenza del magnifico signore Augustino Bernallo, dottore in entrambe le leggi, e procuratore dell’illustrissima signora Lucrezia de Tufo Ursine, nipote, come nell’atto del notaio Giovanni Vincenzo de Sala, del’illustrissima signora Giulia de Oria.»

Il notaio Scipione Gioele avendo a disposizione un’immagine dipinta dello stemma della famiglia Ferrillo la confronta con quella in marmo al di sopra della porta centrale della cappella di Santa Margherita, l’esito fu che:

«tutti coloro che pretendono di avere diritto di patronato nella suddetta cappella, in quanto soggetti o in quanto mandati a nome di altri secondo gli atti. Dichiararono tutti concordi che le armi disegnate dette prima fossero veramente della illustrissima casa dei Ferrillo.»

Due giorni dopo, il 14 luglio del 1582, il notaio Scipione Gioele si recò a Santa Maria la Nova:

«Io personalmente mi sono recato nella chiesa di S. Maria la Nova di questa stessa città di Napoli sotto l’ordine di San Francesco, e in una certa cappella, posta nel corno dell’epistola dell’altare maggiore, sotto l’invocazione dell’Assunzione della Beata Vergine Maria, trovai e vidi in un certo sepolcro marmoreo le medesime armi sopra dette, disegnate del medesimo stile e scultura e di uguale forma, ecc. Unitamente all’epitaffio o all’iscrizione sottoscritta come segue: Matteo Ferrillo nobile appartenente all’ordine equestre…»

Queste ultime parole di Scipione Gioele sono sorprendentemente rilevanti, egli trova all’interno della chiesa di Santa Maria la Nova la tomba di Matteo Ferrillo riportando nel documento il suo epitaffio, del quale per brevità ho trascritto solo il suo incipit, inoltre ci dice chiaramente dove era situata la sua cappella dedicata all’Assunzione della Beata Vergine Maria costruita per volere di Matteo Ferrillo, essa era posta “nel corno dell’epistola dell’altare maggiore”:

«Il lato del vangelo (in cornu Evangelii in latino) è una zona delle chiese cristiane occidentali. Prende il nome dal luogo dove avviene la lettura del vangelo nella liturgia. Rispetto all’altare maggiore, e guardando verso questo, si trova sul lato sinistro. Il lato opposto è il lato dell’epistola (in cornu epistolae in latino), dove venivano lette le epistole, ossia le lettere del Nuovo Testamento scritte dagli apostoli ai cristiani. Guardando l’altare maggiore, il lato dell’epistola si trova sul lato destro.» – Wikipedia

A ciò aggiungo quanto scritto sempre da Viviana Costagliola nel suo testo citato:

«Nel 1998 Donato Salvatore ha proposto di identificare la cappella Ferrillo nella cappella del Crocifisso, mettendo in relazione l’iscrizione presente sul sedile di Matteo Ferrillo – nella quale si ricorda che il defunto aveva dedicato una cappella alla Virginis Assumptionis – con un passo dell’Aggiunta di Carlo de Lellis, in cui l’autore scrive che in Santa Maria la Nova vi era un’Assunzione della Vergine nella cappella a sinistra dell’altare maggiore.» – p. 167

«La convincente ipotesi avanzata da Salvatore è stata confermata da Antonella Dentamaro nel 2011, grazie ad un documento inedito ritrovato dalla studiosa presso l’Archivio Diocesano di Napoli, nel volume riguardante il beneficio della cappella di Santa Margherita, che i Ferrillo possedevano nel Sedile di Porto. Tale documento ha fornito la conferma non solo dell’identificazione della cappella Ferrillo con quella del Crocifisso, ma anche della provenienza dallo stesso vano del sepolcro e del sedile di Matteo Ferrillo, riassemblati nel chiostro di San Giacomo.» – p. 168

Riassumendo, nel 1582 la tomba di Matteo Ferrillo si trovava ancora nella cappella da lui dedicata all’Assunzione della Beata Vergine Maria, il notaio vide sulla tomba del Ferrillo le “medesime armi” disegnate nel “medesimo stile e scultura e di uguale forma” di quelle presenti sulla  cappella di Santa Margherita nella zona del Sedile di Porto, inoltre nel 1582, a circa sei anni dopo il termine della costruzione della cappella Turbolo, la tomba di Ferrillo era ancora nella sua originaria posizione.

In conclusione, ogni illazione che tende a posizionare nello stesso luogo, in un determinato periodo storico, la tomba di Ferrillo e l’epigrafe misteriosa, cadono nel nulla se valutate con i dati a nostra disposizione.

Nel chiudere questa seconda parte dell’articolo, faccio presente che il Glinni e la sua equipe ultimamente sembrano aver cambiato “di nuovo” idea su dove sia “realmente” sepolto Vlad III Tepes, a quanto pare sono ritornati all’ipotesi originaria cioè che Vlad III sia sepolto ad Acerenza, in una recente intervista Giandomenico Glinni (vedi il video seguente) ha affermato:

«Io non credo che Vlad Tepes sia stato seppellito a Napoli, non ci credo. È stato seppellito qui [ad Acerenza]» – minuto 8:55

Raffaello Glinni rincarando la dose ha poi aggiunto:

“il vero Vlad III è sepolto qui sotto [alla cattedrale di Acerenza]” – minuto 9:40

Avremo modo di esaminare le “ulteriori” prove dei Glinni nella terza ed ultima parte di quest’articolo.


Dracula nel Regno di Napoli – Parte prima
Maria Balsa la “presunta” figlia di Dracula

Dracula nel Regno di Napoli – Parte terza
L’epigrafe misteriosa della cappella Turbolo

Dracula nel Regno di Napoli – Parte prima

Maria Balsa la “presunta” figlia di Dracula

Articolo di Francesco Pastore © Riproduzione riservata
Ultimo aggiornamento 16/12/2022

Nel 2014 venne alla ribalta la notizia che alcuni studiosi avevano trovato a Napoli la vera tomba di Dracula, ovviamente non stiamo parlando di Dracula il vampiro ma del personaggio storico che ispirò il racconto di Bram Stoker ovvero Vlad III di Valacchia.

Vlad III era figlio di Vlad II Dracul da qui il suo nome patronimico Dracula, esso deriva da Draculea cioè Dracul più il suffisso -ulea che in rumeno significa “figlio di”, di conseguenza Draculea significa “figlio di Dracul”. Vlad III era soprannominato Țepeș che significa “impalatore”, gli ottomani che ben conoscevano le sue pratiche di tortura lo chiamavano nella loro lingua Kazıklı Bey (Signore Impalatore).

Raffaello Glinni, uno dei suddetti studiosi, nel 2012 aveva scritto due articoli riguardo una principessa di nome Maria Balsa, che a causa dell’invasione ottomana, fuggì verso il Regno di Napoli insieme ad altre famiglie importanti dell’Albania, il Glinni nei suoi articoli ipotizza che Maria Balsa era in effetti la figlia segreta di Vlad III:

Il mistero della principessa ed il conte Dracula del 21 giugno 2012
Fonte 1, Fonte 2

Le SS di Himmler alla ricerca in Italia di Vlad Tepes, Dracula. Il mistero della principessa di Acerenza – 21 Settembre 2012 Fonte 1, Fonte 2

Ma andiamo alla notizia, il quotidiano Il Mattino del 11 giugno 2014 pubblica il seguente articolo:

Campania, la scoperta. «Dracula è sepolto a Napoli. Sappiamo dov’è la sua tomba»

In esso il Glinni dichiara di aver trovato ulteriori “prove” che supporterebbero la sua ipotesi riguardo Maria Balsa:

«…la svolta è giunta negli ultimi mesi, quasi per caso. Una studentessa napoletana, Erika Stella, per la sua tesi di laurea si inoltra nel chiostro di Santa Maria La Nova, scatta una foto che le sembra «strana», decide di andare a fondo e coinvolge via mail gli studiosi, anche quelli estoni, che guardano l’immagine e restano sconvolti. Dopo aver cercato a lungo quella traccia, eccola arrivare per mano di una giovane che sta realizzando una tesi di laurea: secondo gli studiosi è la conferma di due ipotesi:

1) il conte Dracula non morì in battaglia ma venne fatto prigioniero dai turchi;
2) la figlia Maria riscattò il papà prigioniero e lo portò in Italia. Alla morte lo fece seppellire a Napoli.

Ma perché tante certezze? Il marmo, che appartiene alla tomba di Ferrillo, il «genero» di Dracula, è denso di riferimenti che non apparterrebbero alle spoglie dell’uomo che dovrebbe essere lì dentro. E qui la realtà diventa romanzo, almeno finché la scienza non dirà che è tutto vero: «Guardate i bassorilievi – spiega raggiante Glinni – la rappresentazione è lampante. Ricordate che il conte si chiamava Dracula Tepes: vedete che qui c’è la rappresentazione di un drago, Dracula appunto, e ci sono due simboli di matrice egizia mai visti su una tomba europea. Si tratta di due sfingi contrapposte che rappresentano il nome della città di Tebe che gli egiziani chiamavano Tepes. In quei simboli c’è “scritto” Dracula Tepes, il nome del conte. C’è bisogno di altre conferme?» – Link

Personalmente ho analizzato l’intera faccenda e sono arrivato a conclusioni del tutto diverse dai suddetti studiosi, con questo articolo che verrà pubblicato sul blog in più parti, è mia intenzione esaminare le loro “prove” fornendo spiegazioni per me più attinenti alla realtà, così facendo cercherò di fornire quelle alternative credibili che secondo il prof. Giuseppe Reale direttore del Complesso Monumentale di Santa Maria la Nova ancora mancano:

«Facendo gli scettici e gli storici ci si può chiedere cosa c’entra tutto ciò con i dati che abbiamo di Dracula. Resta però la questione del perché questa “roba” sia qui. Non basta solo negare a priori, bisogna farlo con motivazioni valide, ma per ora nessuno è stato in grado. Ad oggi solo la tesi di Glinni offre risposta coerente a tutte queste anomalie, perché tutti questi elementi, se scartiamo l’ipotesi Glinni, non reggono più. Dunque, la cosa più corretta è quella di continuare nelle verifiche e nelle ricerche, perché al momento, se scartiamo la tesi di Glinni, le tessere di questo puzzle non stanno più insieme» – Fenix p. 23

Fra le varie interviste a Raffaello Glinni una particolare menzione va fatta a quella rilasciata alla rivista Fenix (novembre 2013), la copia dell’intero articolo è messa in bella mostra dinanzi alla tomba di Matteo Ferrillo ritenuta dal Glinni la tomba di Dracula:

Francesco Pastore © Riproduzione riservata

Per chi è interessato all’articolo della rivista Fenix esso è scaricabile dal sito dell’associazione Oltre il Chiostro che gestisce il Complesso Monumentale di Santa Maria la Novalink

Prima di occuparci della presunta tomba di Vlad III proviamo a fare luce sulla figura di Maria Balsa.

Maria Balsa è veramente la figlia di Vlad III?

Le fonti che ci parlano di Maria Balsa sono principalmente due:

1) Breve memoria de li discendenti de nostra Casa Musachi – Historia e Genealogia della casa Musachia, scritta da D. Giovanni Musachio Despoto dell’Epiro, presente in Hopf Chroniques gréco-romanes inédites ou peu connues, pub. avec notes et tables généalogiques, 1873 – link

2) M. Antonio Terminio da Contorsi – Apologia di tre seggi illustri di Napoli, 1581 – link

Il testo di Antonio Terminio risale al 1581 mentre la breve memoria di Giovanni Musachi è fatta risalire al 1510:

«Breve memoria de Don Gio. Mosachi despoto d’ Epiro aἱ suoi figlioli Don Theodoro, Don Adriano e Don Costantino; suoi figli et successori de quel poco che lui se ricorda, et son nel anno 1510»

Vediamo cosa ci dice il Musachi riguardo Maria Balsa:

«La settima figlia Signora Comita hebbe per marito il Signor Coico Balsichi, che fù Signor di Misia, li quali fecero due figli mascoli et una femina; li mascoli morsero in Ungaria; la femina Signora Maria hebbe per marito lo Signor Conte de Muro» – p. 285

«E sappiate, che la Signora Maria de Bassa hoggi contessa de Muro me vene nipote consobrina, che fù figlia della Signora Donna Comita Comnini, sorella della Signora Scanderbega, pur figliola della Signora Maria Mosachj mia zia» – p. 291

«Dell’altra quarta sorella Signora Vlaica fù maritata col Signor Balsa, dalle quale nacque Giovanni e Coico Balsa; questo Signor Coico fu padre della Signora Contessa de Muro.» – p. 296

Da quanto scrive Giovanni Musachi si evince che “hoggi”, cioè nel 1510 data a cui egli fa risalire il suo scritto, Maria Balsa era ancora in vita ed era già contessa di Muro, inoltre afferma che ella era sua consobrina, dal latino ‘consobrinus’, questo termine:

«…non designava una qualsiasi persona in posizione di cuginanza, cioè discendente di fratello o sorella di padre o madre. Era specificamente figlio o figlia della sorella della madre.» – link

Per intenderci, Andronica e sua sorella Comita Comnini, madre di Maria Balsa, erano figlie di Maria Musachi la quale era sorella di Chiranna, la madre di Giovanni Musachi. In breve Giovanni Musachi era cugino di Andronica e Comita Comnini, di conseguenza egli era lo zio di Maria Balsa

Coico Balsa o Balsichi, il padre di Maria, era invece figlio della Signora Vlaica sorella di Giorgio Castriota Scanderbeg marito di Andronica, da questo possiamo evincere che Maria Balsa era imparentata da parte di madre con la famiglia Arainiti Comneno e da parte di padre con la famiglia Castriota Scanderbeg, questo era certamente un buon retaggio per un aspirante moglie.

Antonio Terminio, che scrisse 71 anni dopo, nel suo Apologia di tre seggi illustri di Napoli riporta quanto segue:

«[Matteo Ferrillo] Hebbe un figlio al quale pose nome Alfonso, e essendo con lo Despoto de Larta, e col figlio di Scandetbecco che fur cacciati dal Turco da i stati che haueano in Grecia, venuta in questo Regno [di Napoli] Andronica Cominata Moglie del grande Scanderbecco vene con lei Donna Maria Balsa figlia del Despoto di Seruia e della Sorella di Andronica fanciulla di sett’anni, e come il Re hebbe pensiero di dare intertenimento a quelli Signori scacciati da i stati loro, così la Regina accolse con grandissima carità quelle donne, e quando la fanciulla fu in età da marito la donò in moglie ad Alfonso Conte di Muro» – p. 26

In effetti abbiamo un Despota di Serbia di nome Stefano Brankovic che sposò Angelina una delle sorelle di Andronica, questi ebbero cinque figli due maschi e tre femmine una delle quali di nome Maria che però sposò il marchese di Monferrato Bonifacio III, è probabile che Antonio Terminio abbia fatto un po’ di confusione. Abbiamo a tal proposito un documento che confermerebbe la versione di Giovanni Musachio e smentirebbe di conseguenza quella di Antonio Terminio, si tratta di una lettera del sangiacco di Valona inviata al conte di Muro Giacomo Alfonso Ferrillo governatore delle province di Otranto e di Bari, questa lettera presente nell’Archivo General de Simancas è datata 22 marzo 1514, nei saluti finali al conte di Muro il sangiacco scrive:

«salutamo et offeremonj a la s(ignora) v(ost)ra (con)sorte como e patre qnto ad n(ost)ra figliola p(ro)pria et non meno ad madamma Comita sua matre n(ost)ra qnto e sore. Ex bellogrado xxij marcij MDXIIII» – Alberto Rescio, Una amicabile pratica tra l’Albania e la Puglia nel 1514, Mediterranea – ricerche storiche – Anno XV – Agosto 2018, pag. 355.

Da questi saluti del sangiacco si evincono due cose importanti: la prima è che la madre di Maria Balsa era “madamma Comita” mentre la moglie del despota di Serbia Stefano Brankovic come sappiamo era Angelina; la seconda è che Maria Balsa non arrivò orfana nel regno di Napoli come afferma Raffaello Glinni.

Riepilogando Maria Balsa era figlia di Comita Comnini  e di Coico Balsa signore della Misia, Giovanni Musachi descrive la Misia come uno stato situato tra Croia e Alessio, non va quindi confusa come ha fatto Glinni con la Misia romana situata a nord-ovest dell’attuale Turchia.



La fuga nel Regno di Napoli

Dopo la morte del condottiero albanese Giorgio Castriota Scanderbeg avvenuta il 17 gennaio 1468 i Balcani persero un formidabile baluardo contro i tentativi di conquista dell’impero Ottomano, questo spinse Andronica moglie di Scanderbeg ed altri a rifugiarsi presso l’alleato Regno di Napoli.

Nel 1535 Costantino un figlio di Giovanni Musachi ebbe in dono una cronaca che descriveva proprio quegli eventi:

«Tratto della casa d’ Ottomano e come passò in Europa, e della ruina dell’imperio de Constantinopoli, e d’ alcuni Signori de quel paese, fatto per Theodoro Spandolitio gentilhuomo Greco, e la donò a me Don Costantino Mosachi nel tempo che la Maestà C. fù in Roma nel 1535, dico de Carlo Quinto.» – link

«La Signora Scanderbega moglie del Signor Seanderbego una con suo figliolo Giovanni se n’ andò al Re Ferrante d’Aragona Re de Napoli, e con lei andaro altre Signore vedove, che loro mariti erano morti in quella guerra de Turchi, e da detto Re forno bene recevute. Ma com’ ho detto, restaro in Albania alcuni delli Signori Ducaguini in parte de lor paese, restò anco Giovanni Mosachi, figlio del Signor Ginno Mosachi sopra nominato, in una parte de suo paese chiamato la Tomonista cioè la Musachia minore, e lì s’ interteneva con ajuto e favore de Venetiani, restaro aleuni Signori Balsi in lor paese di Misia. Ma fando poi pace Venetiani col Turco, furno forzati fuggir tutti, et il detto Mosachi venne al Re de Napoli, li Bassi in Ungaria, altri in Venetia, li Ducaguini in la Marca d’Ancona altri si fero Turchi, sichè tutti andaro in fuma e roina, et il Turco restò monarca de detta Albania.» – pp. 334 – 335

In breve Andronica e Giovanni, rispettivamente moglie e figlio di Scanderbeg, insieme ad altri si rifugiarono presso il Regno di Napoli, mentre altri ancora rimasero per contrastare i turchi come alcuni Signori Balsi che restarono per difendere il loro paese di Misia, è probabile che tra questi vi fosse anche il padre di Maria cioè Coico Balsa. Da alcune missive del re di Napoli possiamo appurare che tutto ciò avvenne nell’anno stesso della morte di Scanderbeg, nella seguente lettera datata 23 febbraio 1468 il re Ferrante I incarica Girolamo di Carvigno di recarsi presso la famiglia per esprimere il suo cordoglio e di provvedere, tramite “alcuni navigli”, al loro trasferimento presso la propria corte:

«Rex Sicilie etc. Ieronimo de Carvineo. havendo nui inteso per multe
vie et per homo proprio ad nui mandato che Ill. Scanderibego secundo
è piaciuto ad nostro S. Dio è morto ad nui è stata dicta morte tanto
molesta non meno de quella de nostro patre. et essendo ad nui molesta
per ogni respecto pensamo ad sua mogliere et figliolo essere
molestissima. Et perciò havemo deliberato mandareli ad visitare.
Per tanto vui dicto Ieronimo de continente ve conducerite davante lo
cospecto de la mogliere et figliolo del dicto quondam Scandaribego et
poi de le infinite et debite salute da nostra parte li confortarite
esplicandoli quanto ad nui sia stato molesta la dicta morte: la quale
loro vogliamo tollerare considerato che non si pò restaurare per nullo
remedio.
Item perchè ad nui per loro misso proprio haveno notificato che
vorriano venire in questo nostro Regno pregandoce li volessemo
provedere de alcuni navilio per possere passare: pertanto da nostra
parte li esponerite che loro venuta ad nui serà multo piacere, et da nui
haveranno quelle carize et honori che figlio deve fare ad matre et patre
ad figliolo et non solamente li lassaremo quello ce havemo donato ma
quando bisognio fosse li donaremo de li altri nostri ben
i.»
Gennaro Maria Monti, La spedizione in Puglia di Giorgio Castriota
Scanderbeg
, 1940, p. 174

La signora Andronica Scanderbeg e il figlio Giovanni ebbero molte concessioni da parte degli aragonesi, ad esempio in una lettera datata 1 ottobre 1469 Ferrante I dispone che il pagamento della tassa sul sale di Monte S. Angelo vada ad Andronica Scanderbeg:

«Rex Sicilie etc.
Nobiles et egregij viri fideles nostri dilecti. Nuy novamente havimo
ordinato che vuy pagate a la jllustre et magnifica Madama Donica
mogliere che fo de l’jllustre Scanderbech lo sale quale se dà per nostra
Corte a l’altre terre de questo Regno et non altro pagamento nisuno
durante lo tempo de la franchitia per nuy et nostro privilegio concessa,
et che essa sia tenuta dareve dicto sale, pertanto volimo che da mo
inante debiate pagare a la prefata Madama Donica o ad soi factori
dicto sale et non altro pagamento durante lo tempo de dicta franchitia
per nuy ad vuy concessa, cum questo che essa sia tenuta dareve lo
dicto sale non obstante qualsevoglia lictera comandamento et
provisione havessivo havute da nostra Maestà. Et questa nostra
ordinatone et voluntate intimante ad qualsivoglia sia ve donasse
inpacio o ve domandasse altro pagamento che dicto sale.»
Gennaro Maria Monti, La spedizione in Puglia di Giorgio Castriota
Scanderbeg
, 1940, p. 175

Da quanto riportato risulta chiaro che Andronica Scanderbeg arrivò nel Regno di Napoli intorno al 1468, il figlio Giovanni però aveva 13 anni, come si spiegano quindi le seguenti parole del Terminio?

«[Matteo Ferrillo] Hebbe un figlio al quale pose nome Alfonso, e essendo con lo Despoto de Larta, e col figlio di Scandetbecco che fur cacciati dal Turco da i stati che haueano in Grecia»

E’ probabile che il Terminio abbia unito due eventi distanti l’uno dall’altro di una decina d’anni, il primo risale al 1468 quando Andronica dopo la morte del marito arrivò a Napoli:

«La Lega dei kapedan albanesi era ora molto debole, venuto meno colui che le aveva infuso anima e forza. Giovanni Castriota era troppo piccolo per esserne messo a capo, né pareva aver ereditato le straordinarie capacità del padre. Nel 1468 egli consegnò Croia e il principato paterno a Venezia, perché lo difendessero contro i1 turco, e si trasferì con la madre alla corte di Napoli, dove Ferrante li accolse con grandi onori e li prese sotto la sua protezione» – Fan Stilian Noli, Scanderbeg, Lecce, ARGO, 1993, p. 151

Il secondo evento risale invece al 1479 quando i turchi presero definitivamente Croia provocando la fuga degli albanesi descritta in precedenza da Costantino Musachi:

«Sbarcò in Albania anche Giovanni Castriota, figlio dell’Eroe, appena fu in età di adoperare le armi. Tutto fu vano. Nel 1478 cadde Croia, la piccola capitale del principato di Scanderbeg, che aveva resistito all’assedio dei due più grandi Sultani del secolo. Nel 1479 si arrese anche Scutari dopo una epica lotta degli Scutarini e dei Veneziani che, uniti, difesero, con mirabile eroismo, la cittadella di Rosafat.» – Ernesto Koliqi, Saggi di letteratura albanese, 1972 p. 78

Il Despota di Larta di cui parla il Terminio risulta essere Leonardo III Tocco, anch’egli in fuga nello stesso anno dagli ottomani:

«Nell’estate del 1479, guidata da Gedik Ahmed Pascià, il nuovo bey di Valona, una piccola flotta di ventinove vascelli salpò verso i possedimenti di Tocco. La Repubblica di Venezia, pur avendo notizia dell’arrivo della flotta, non intervenne a favore del despota epirota, e si limitò a ritirare circa 500 cavalieri dall’isola di Zacinto prima che sbarcassero gli ottomani. Per nulla intenzionato a resistere allo sbarco ottomano, Leonardo III Tocco, insieme a sua moglie Francesca Marzano, imparentata con Alfonso V d’Aragona, fuggì con la famiglia ed i suoi tesori nel Regno di Napoli, dove ricevette dal re Ferdinando I di Napoli i feudi di Calimera e Briatico. [cfr. William Miller – The Latins in the Levant, a history of Frankish Greece (1204-1566), 1908, pp. 485-487]» – Wikipedia

È plausibile pensare che Maria Balsa arrivò nel Regno di Napoli tra il 1479 e il 1480. Le fonti ci dicono che Maria fu data in sposa al conte di Muro Giacomo Alfonso Ferrillo, purtroppo non sappiamo in quale anno. Premesso che Maria probabilmente arrivò a Napoli intorno al 1480 all’età di sette anni, è ipotizzabile che lei si sia sposata tra i 12 e i 16 anni, all’epoca la chiesa riteneva che le donne raggiungessero la pubertà e quindi l’età nubile a 12 anni, mentre per gli uomini era di 14 anni. Considerato che le donne a 16 anni venivano già ritenute “vecchie” per il matrimonio, possiamo ipotizzare quindi che il matrimonio tra Maria Balsa e Giacomo Alfonso Ferrillo avvenne tra il 1485 e il 1489.
Maria Balsa dopo il matrimonio ebbe due figlie, Beatrice la quale si sposò con Ferdinando Orsini V duca di Gravina e Isabella che si sposò due volte, con Giannicola Orsini e dopo la morte di questi con Luigi IV Gesualdo.

Secondo alcuni documenti Maria Balsa sarebbe morta nel 1559, ella riposa insieme al marito  Giacomo Alfonso Ferrillo nella cripta della cattedrale di Acerenza in provincia di Potenza:

«Nel 1479 Matteo Ferrillo acquistò per 12.000 ducati i feudi di Genzano ed Acerenza, mentre già nel 1477 avevano acquistato dalla Corte Regia il feudo di Muro Lucano. Giacomo Alfonso Ferrillo, figlio di Matteo, ristruttura la Cattedrale Acheruntina gravemente danneggiata dal terremoto del 5 Dicembre 1456 e dotandola intorno al 1524 di una nuova cripta, molto probabilmente impiantata su una preesistente di epoca altomedievale. A testimonianza di questi lavori troviamo infatti sulla facciata della basilica, poco sopra il portale d’accesso, la loro araldica.» – link


La presunta “dote rumena” di Maria Balsa

Raffaello Glinni da particolare enfasi ad un documento risalente al 1531 dove sembrerebbe che Maria Balsa abbia portato in dote le “terre di Romania” e che poi le abbia passate alle sue figlie, questo per il Glinni sarebbe una prova a dimostrazione che Maria Balsa sia originaria della Romania:

«A questo punto occorre evidenziare che gli studiosi ritengono molto piu’ attendibile un testo scritto del 1531 redatto in ambito familiare vivente Maria, con valenza giuridica e dinastica , nel quale dovendo dare atto dei possedimenti in dote alla figlia di Maria Balsa, Donna Beatrice, in sposa del Principe Ferdinando Orsini, , viene indicata la Romania.
Il testo è riportato nello studio piu’ prestigioso pubblicato sulla storia di Acerenza, e precisamente nel volume “La Cattedrale di Acerenza” D’Elia / Gelao edizioni Osanna e pubblicato da Prandi nel 1958 alle pag. 289/290.»

Questo argomento merita di essere approfondito, iniziamo col vedere cosa scrive esattamente Clara Gelao nel testo citato dal Glinni:

«Non siamo comunque in grado di stabilire esattamente il paese d’origine di Maria, dato che i Balsa, oltre che come despoti di Serbia, vengono indicati anche come «signori d’Albania». Una testimonianza del 1531, vivente Maria, suggerisce un’altra ipotesi, forse la più plausibile: che cioè, i Balsa provenissero dalla Romania, confinante con la Serbia, in cui ancora in quell’anno i suoi eredi possedevano dei fondi (42).» – p.186

La Gelao ipotizza la provenienza dalla Romania dei Balsa in base ad un documento che “dimostrerebbe” che degli eredi di Maria Balsa possedevano dei fondi in quel paese, vediamo cosa riporta la nota 42:

«La testimonianza cui si allude nel testo è la relazione scritta nel 1531 da Francisco Perron, presidente della R. Camera della Sommaria di Napoli, pubblicata in Cortese 1931, p. 155 e ss., relativa allo stado del duque de Gravina, Ferdinando Orsini, che aveva sposato in seconde nozze Beatrice Ferrillo, figlia di Giacomo Alfonso Ferrillo, conte di Muro e di Acerenza, e di Maria Balsa. In uno dei passi della relazione Antonio Orsini fijo de la segunda muger del duque, pre tiende haver, por donacion fecha a el por el duque su padre, la tierra de Carbonara y dos mil ducados annuos d’entrada sobre las tierras que stan en la Romanya y xxxx mil ducados de propriedad para comprar entrada en el reyno, prometidos a él por el duque en los capitulos matrimoniales de su madre, y pretiende qu’el stado l’es obligado a ésto. Le terre site in Romania di cui Antonio Orsini pretende il possesso gli rivenivano evidentemente dalla madre Beatrice Ferrillo: e a quest’ultima dovevano con tutta probabilità essere state trasmesse, a sua volta, da Maria Balsa.» – pp. 312 – 313

Qui va precisato che la testimonianza citata dalla Gelao è presente  nel testo di Nino Cortese Feudi e feudatari napoletani della prima metà del Cinquecento, e non in un testo del Prandi del 1958 come scritto dal Glinni, sarà stato probabilmente un refuso.

Per i più riporto di seguito la traduzione del testo riprodotto dal Cortese:

«Antonio Ursino, figlio alla seconda moglie del duca, intende avere, per donazione data a lui da parte del duca suo padre, la terra di Carbonara e 2.000 ducati all’anno di entrata sui terreni che sono in Romania e 40.000 mila ducati di proprietà per comprare l’ingresso nel regno, promessi a lui dal duca nei capitoli matrimoniali di sua madre, e sostiene che lo stato è obbligato a questo.»

Prima di approfondire l’argomento sui “terreni che sono in Romania” ripropongo un interessante osservazione fatta da Mario Ciola in Il Lupo e la Cometa:

«Il riferimento alla Romania, quale possibile terra d’origine di Maria Balsa, è solo una cauta supposizione della Gelao, giustificata, peraltro, dall’esistenza di possedimenti registrati a nome della Balsa – o dichiarati tali – in quella nazione. Ma, per quanto degna di considerazione, non costituisce una prova sufficiente. Non è una novità, infatti, che le aristocrazie del tempo avessero posedimenti, anche importanti, in altre nazioni. Ancora oggi è possibile imbattersi, consultando gli archivi comunali, in lunghe e intricate controversie, come è accaduto, per esempio, con i vescovi parigini Colombiers che vantano ancora, per complesse ragioni ereditarie, residue proprietà a Genzano di Lucania e Palazzo S. Gervasio o con alcune famiglie austriache e tedesche, legate ai Graf per parte dei Revertera che furono Duchi di Salandra.» – p. 18

Ma c’è di più, quello che probabilmente è sfuggito alla Gelao e ad altri è che il termine “Romania” è applicato anche ad altre “terre”, alcune di queste sono presenti anche in Italia e ce lo dice proprio uno dei testi trascritti dal Cortese:

«El castillo de la Posta de Burbona.
Por cc escudos. Este castillo fué concedido al capitan Fernando Corneio; tiene lxij fuegos; passale un rio por cerca; tiene un castillo en alto maltratado, y està tambien en el
passo de la Romania, en donde dizen la Leonessa.»

Traduzione:

«Il castello di Posta di Burbona.
Per 200 scudi. Questo castello fu concesso al capitano Fernando Corneio; ha 61fuochi; passa un fiume nelle vicinanze; ha un castello alto e malconcio, ed è anche nel passo della Romania, dove si dice la Leonessa.
»

Le città di Posta, Borbona e Leonessa si trovano tutte nella provincia di Rieti, Leonessa tra l’altro è stata terra di confine sin dal suo sorgere in epoca altomedievale, all’estremo confine settentrionale del regno di Napoli e confinante a nordovest con lo Stato della Chiesa. Tra gli antichi resti della città di Leonessa ci sono in particolare due porte: la Porta Aquilana detta anche Porta del Regno o Porta Napoli, da cui partiva la strada per L’Aquila, e la Porta Spoletina detta anche Porta del Colle o Porta di Stato, proprio perché la via che da essa si dipartiva conduceva nei territori dello Stato della Chiesa (cfr. link)

Questa via probabilmente attraversava il “Passo della Romania”, e visto che la terra dello Stato della Chiesa o parte di essa venivano chiamate anche “Romania”, è probabilmente che questo sia il motivo all’origine del nome del Passo:

«Quello che qui ha da notarsi è, che il Patrimonio della Sabina alla Santa Sede appartenuto, siccome non è sempre stato della medesima dimensione, avendo questa dovuto dipendere dalla giurisdizione che ora maggiore ora minore pretendevasi dai Duchi di Spoleto, così non ha sempre avuto la medesima denominazione. Generalmente parlando fu sempre chiamato Patrimonio Sabinese. Qualche volta leggesi, come avverte la storia succennata, scritto Romania, o Territorio Romano e di Roma; e quello con questo nome sembra venisse indicato, che dal fiume Farfa sin dove giungeva il Ducato Spoletano, stendevasi lungo il Tevere e l’Aniene verso la stessa città di Roma. Trovasi anche detto Patrimonium utrumque Sabinense, e questo espressamente dicendosi appartenere alla Santa Sede, par che possa intendersi per quella parte della Sabina già chiamata Romania, come si disse, e suddella quale giammai intrigati si erano i Duchi, e per l’altra superiore che è noto aver essi dominata.» – Francesco Paolo Sperandio, Sabina sagra e profana antica e moderna, 1790, p. 100

«La Tuscia vicina a Roma era denominata eziandio Romania (Gregouovius lib. VIII cap.  3 § 2)» – Giuseppe Tomassetti, Della campagna romana nel medio evo, 1885, p. 11

Detto questo arriviamo ora alla prova definitiva che ci dimostra che le citate “terre di Romania” non si trovano nel paese di Vlad III ma bensì in Italia. Il suddetto Francisco Perron, presidente della R. Camera della Sommaria di Napoli ci dice che la causa di Antonio Orsini con il regio fisco era ancora pendente (pende pleyto), come anche quella della madre Beatrice:

«Doña Beatriz Ferrella, muger del duque, pretiende que le es devido sobr ‘ el stado xiiij mil ducados y iiij mil por el antefato. Pende pleyto.»

Traduzione:

«Donna Beatrice Ferrella, moglie del duca, ritiene che le siano dovuti sullo stato 14.000 ducati e 4.000 per l’antefatto. Causa pendente»

A riguardo, la biblioteca dell’UCLA di Los Angeles nel suo Orsini Family Papers contempla i documenti in italiano della causa di Beatrice Ferrelli (o Ferrillo) e di suo figlio Antonio Orsini:

«Processo d’assistenza per D. Beatrice Ferrelli [Ferrillo] del Balzo, D. Antonio Orsini Duca [di Gravina] contro il Regio Fisco.» – link

Avendo avuto la possibilità di visionare le copie di questi documenti riporto di seguito la parte a cui si riferisce Francisco Perron:

«Don Antonio Orsini, figlio primogenito del predetto Duca Ferdinando, e D. Beatrice Ferrelli, et asserisce come il Duca suo padre, quando contrahè matrimonio con la Duchessa sua madre, fra gli altri patti, a contemplazione del detto matrimonio donò al figlio primogenito nascituro da quello la terra di Carbonara, ann. ducati 2000 sopra la terra che possedeva in terra di Roma e altri 40.000 ducati…»

terra di Roma

Il documento datato 9 maggio 1531 parla chiaramente di “terra di Roma“, come si evince dalla su riportata immagine tratta dal testo consultato, Francisco Perron quindi quando parla di “terreni che sono in Romania” si riferisce a territori nei dintorni di Roma che lui conosceva anche con l’altro nome di “terre di Romania“, inoltre sembra abbastanza chiaro che a donare la terra di “Carbonara” e la rendita sulla “terra di Roma” fu il Duca suo padre e non la moglie, la decisione sulla donazione venne stabilita quando i genitori di Antonio Orsini contrassero matrimonio, prima della sua nascita.

Maria Balsa e il “Balsa della Romania”

Raffaello Glinni a dispetto di quanto riportato nella cronaca di Giovanni Musachi è cioè che Maria prende il suo cognome dal padre Coico Balsa, propone una teoria “alternativa”:

«Ancor più concreto è quanto Raffaello Glinni ha ritrovato nelle sue ricerche documentali, specificamente in un libro storico pubblicato nel 1710, dal titolo “Del Mappamondo Istorico, De’ Califi Maometani e degli Imperatori Ottomani dall’anno di Gesù Cristo 571, in cui nacque Maometto, fino all’anno 1566 in cui morì Solimano II”, scritto dal marchese Don Domenico Suarez, che ovviamente fa riferimento a fonti più antiche. In questo tomo, a p. 250, Vladislao Dracula viene chiamato “il Balsa della Romania”, dunque il nome scelto per la giovane, a questo punto, non sarebbe più un mistero, rendendo l’intrigo e il mascheramento di Maria molto più chiaro.» – Felix p. 19

In alto, il testo del 1710 in cui Vlad Tepes è chiamato “il Balsa della Romania” – Felix p. 19

Se l’articolo riporta in modo corretto quanto detto dal Glinni egli sbaglia sia a leggere il testo citato che nell’interpretarlo.

Partiamo dal testo Del Mappamondo Istorico che è consultabile liberamente su Google books – link


Glinni sembra non conoscere la lettura della S lunga nei testi antichi:

«La s lunga (ſ) è una forma antica della lettera s minuscola, facilmente confondibile con una f.» – Wikipedia

Glinni addirittura confonde la s lunga con la l anziché con la f. Proviamo a leggere in modo corretto parte del testo citato:

…del suo Esercito al Bassà della Romania

Come si può notare la s lunga (ſ) è presente anche nelle due parole “suo Esercito”, quindi non abbiamo alcun Balsa della Romania ma bensì un Bassà della Romania, il termine Bassà era un titolo dato a sovrani e governatori:

«pascià (ant. bascià o bassà) s. m. [dal turco pashà, in grafia mod. paşa, prob. der. del pers. pādishāh «sovrano», incrociato col turco basqàq «governatore»; le varianti italiane e le altre pronunce occidentali con b– sono dovute all’influenza della pronuncia araba d’Egitto o a confusione con l’altro titolo turco bàsha (der. di bash agha «capo supremo»)].» – Treccani

Questo per quanto riguarda la lettura del testo, riguardo invece la sua interpretazione Glinni identifica Re Vladislao (Uadlisao) con Dracula, anche qui egli commette un grosso errore, basta leggere sempre il testo in questione a p. 250:

«Ad instanza del Pontefice Eugenio IV. avevano gli Ungheri nuovamente mossa la guerra al Sultano per sostenere le parti del Despoto della Servia, laonde il Sultano dando la direzione del suo Esercito al Bassà della Romanía gli assegnò Scanderbeg in compagno, nel cui valore principalmente confidavasi della vittoria; ma questa volta egli restò deluso di sua credenza, poichè al disfacimento delle sue truppe non tanto contribuì la bravura di Uniade Generale del Rè Uladislao, quanto i voti del medesimo Scanderbeg, che segretamente desiderava che i Cristiani ne restassero vittoriosi.»

Gli eventi qui descritti si riferiscono alla Battaglia di Nissa del 1443, i protagonisti citati sono:

Sultano: Murad II
Despoto della Servia: Đurađ Branković
Uniade Generale: Giovanni Hunyadi
Scanderbeg: Giorgio Castriota Scanderbeg
Re Uadislao: Ladislao III di Polonia

Inoltre nel 1443 Vlad III aveva appena 12 anni ed era ostaggio de sultano Murad insieme al fratello Radu:

«Murad mise Dracul [padre di Vlad III] a capo di un contingente ottomano con il quale il voivoda scacciò Basarab e riprese per sé il trono (1443). L’aiuto di Murad costò però caro a Dracul: oltre ad un tributo annuale di 10.000 ducati, il Drăculești dovette garantire il Devșirme ed inviare al sultano il suo erede in ostaggio. Deciso a salvare il primogenito Mircea, Vlad II consegnò agli ottomani i giovani Vlad [Dracula] e Radu.» – Wikipedia


Analisi di altre “interpretazioni alternative”

1) «Comita e Gojko Balsa, morirono in tarda età, non vengono mai menzionati dalla presunta figlia, non intervengono nella sede dei patti matrimoniali con i Ferrillo, e non vi era alcun motivo per il quale la religiosissima Maria Balsa, che si descrive quale orfana, dovesse interrompere drasticamente i rapporti con i genitori.
Del resto Maria è indicata quale Principessa e figlia di un Voivoda, ed a ciò si aggiunga che la stessa non fa mai riferimento al titolo e ai possedimenti in Misia.
» – link

Sarebbe interessante sapere dove il Glinni abbia letto che Maria si descrive quale orfana, sta di fatto che il rapporto tra Maria Balsa e i suoi genitori non si sono interrotti drasticamente come afferma il Glinni, ciò lo dimostra la lettera del 1514 precedentemente citata del sangiacco di Valona, in essa egli saluta sia Maria Balsa che sua madre “madamma Comita”.

Maria Balsa nelle suddette cronache viene detta figlia del Despota di Serbia e figlia del Signore di Misia, nessuna però cita come fa il Glinni il termine Voivoda, questo titolo era dato in genere da un sovrano ad un capo o a un governatore di un territorio:

«Nome dato sin dal medioevo nell’Europa centro-orient., dalla Polonia ai Balcani, ai capi o governatori (elettivi o nominati o riconosciuti dal sovrano) di determinati territori, con estesi poteri, civili e militari, conservato poi durante il dominio turco dei Balcani in Valacchia e Moldavia, in Serbia e nel Montenegro.» – Treccani

Il termine Voivoda in paesi come la Bulgaria, Albania e Romania era anche il titolo dato al principe ereditario.

2) «Gojko Balsa era infatti figlio di Đurađ, figlio illegittimo di Durad I signore di Zeta.
La dinastia ufficiale dei Balsa si era infatti estinta con Balsa III nel 1421, che non aveva lasciato eredi, sicchè Gojko non poteva fregiarsi del titolo di Voivoda e tanto meno la di lui figlia
» – link

Come già detto il titolo Voivoda non viene mai attribuito a Maria Balsa né tanto meno a Gojko Balsa, inoltre il fatto che Gojko Balsa discenda da un ramo illegittimo dei Balsa/Balsic non lo esclude da essere appartenente a questa famiglia e ad esigere dei riconoscimenti. A tal proposito un esempio calzante è quello del re Ferdinando I d’Aragona noto anche come Ferrante, unico figlio maschio “illegittimo” di Alfonso V d’Aragona e Gueraldona Carlino, una nobile napoletana non di origine regale, Ferdinando I dopo la morte del padre divenne comunque re nonostante l’opposizione di qualcuno:

«Così come stabilito dal padre, Ferrante gli succedette sul trono di Napoli nel 1458, all’età di 35 anni; ma il papa Callisto III, mal disposto nei suoi confronti, con bolla del 12 luglio dichiarò vacante il trono di Napoli non riconoscendo la successione di Ferrante perché, a suo dire, egli non era figlio né legittimo né naturale di Alfonso V d’Aragona, ma figlio di un servitore moro. Il pontefice morì nell’agosto del 1458 senza però raggiungere il suo obiettivo; il suo successore, il papa Pio II (1458-1464), invece, riconobbe come legittimo sovrano Ferrante, il quale fu incoronato solennemente il 4 febbraio 1459 nella Cattedrale di Barletta.» – Wikipedia

3) «Le cronache la descrivono arrivata orfana, in Italia nel 1480 all’età di circa 7 anni, al seguito di Androniaca Cominata (Comnena) vedova dell’eroe albanese Giorgio Castriota Skandeberg, despota di Albania, giunta profuga alla Corte dell’alleato Ferrante D’Aragona, Re di Napoli, in quanto membri dell’ordine del Dragone, lega di mutuo soccorso cui aveva aderito anche DRACULA.» – link

L’ipotesi che il re di Napoli abbia accolto Maria Balsa e gli Scanderbeg perché Giorgio Castriota era un membro dell’Ordine del Drago non tiene conto di un patto ben più solido del citato “mutuo soccorso”, mi riferisco al Trattato di Gaeta:

«In un documento emanato il 26 marzo 1451, Alfonso prese Scanderbeg sotto la sua protezione, con queste condizioni: quando Scanderbeg, con l’aiuto del re di Napoli, avesse riconquistato le terre sottrattegli dai turchi, avrebbe consegnato il suo principato ad Alfonso dal quale lo avrebbe poi ricevuto come suo vassallo; e Alfonso avrebbe insediato a Croia un viceré. Scanderbeg si sarebbe recato di persona a Napoli per riconoscere il suo re, gli avrebbe versato il tributo in precedenza dato al sultano, e avrebbe comperato sale soltanto nella capitale italiana. Dal canto suo Alfonso si impegnava a confermare i privilegi della Città di Croia e degli altri kapedan. Tutte queste clausole dell’accordo sarebbero state confermate dal sovrano aragonese in un altro suo documento del 19 aprile 1457.
Alfonso concluse trattati di analogo tenore anche con Giorgio Araniti, Giovanni Musacchi, Pietro Spani, Giorgio Stres Balsha, Paolo Dukagjini, Musacchio Topia, Pietro di Himara, Simone Zenebishi e Carlo Tocco di Narta. In questo modo si ricostruì la lega dei kapedan albanesi sotto l’egida di Alfonso, con a capo sempre Scanderbeg agente in nome della corona.» – Fan S. Noli, Scanderbeg, pp. 73-74

Come si può notare Giovanni Musachi, autore di una delle cronache summenzionate, è tra quelli che stipularono un trattato con il re di Napoli, ed è anche uno di quelli che furono accolti in Italia dopo la morte di Giorgio Scanderbeg pur non facendo parte dell’Ordine del Drago. Inoltre dopo la morte del fondatore dell’Ordine Sigismondo di Lussemburgo possiamo vedere come Vlad II Dracul il padre di Dracula e l’ungherese Giovanni Hunyadi, appartenenti entrambi all’Ordine, divennero nemici:

«Nel 1437 l’imperatore Sigismondo morì. Privo del potente alleato, il voivoda Dracul entrò rapidamente in contrasto con il suo pericoloso vicino, il principe di Transilvania Giovanni Hunyadi, egli stesso membro dell’Ordine del Drago ed a suo tempo compagno di lotta di Vlad contro gli hussiti. Bisognoso di alleati contro il suo vecchio “amico”, intenzionato a riportare la Valacchia sotto il controllo dell’Ungheria, Dracul finì per l’allearsi con il sultano turco Murad II.» Wikipedia

Di fronte agli interessi di parte non c’è mutuo soccorso che tenga.
Se ciò non bastasse non va dimenticato che gli Aragonesi del Regno di Napoli avevano un debito non indifferente verso Scanderbeg, egli tra il 1460 e 1462 intervenne in maniera decisiva a favore di Ferdinando I nella sua guerra contro gli Angioini che rivendicavano il trono del Regno di Napoli. – link
Ricordo che fu proprio Ferdinando I ad accogliere la vedova Scanderbeg e Maria Balsa presso la propria corte.

4) «Si tenga però a mente che un’altra figlia di Angelina, dal nome Milica (-1554), sposò il voivoda di Valacchia Basarab V Neagoe.
Altra cosa importantissima è che il fratello di Brankovic, fu l’ultimo alleato e amico di Dracula nella guerra contro i Turchi 1476, anno della sparizione di Vlad.» – link

Il fatto che Milica abbia sposato il voivoda di Valacchia Basarab V Neagoe più che una prova a favore dell’adozione di Maria Balsa da parte di Stefano Brankovic risulta un aggravante.

Anche se la famiglia di Vlad III e quella di Basarab V Neagoe discendono da un antenato comune esse sono sempre state in lotta per il potere. Vlad III apparteneva alla famiglia dei Drăculești, Basarab III Laiotă cel Bătrân ultimo avversario di Vlad III per la lotta al trono di Valacchia apparteneva alla famiglia dei Dănești, Basarab V Neagoe apparteneva invece alla famiglia dei Craiovești:

«I Drăculești furono una delle due linee maggiori originatesi dalla Casa di Basarab, la schiatta che costituì e garantì i primi governati al principato autonomo di Valacchia; l’altra linea fu quella dei Dănești. Drăculești e Dănești furono in lotta costante per il controllo sul trono valacco tra XIV e XVI secolo, dando al paese la maggior parte dei suoi voivoda (principi). Venuta meno la minaccia dei Dănești, i Drăculești trovarono nuovi nemici nella famiglia dei potenti boiari Craiovești d’Oltenia, accampante una discendenza dalla Casa di Basarab.» – Wikipedia

Ecco inoltre cosa scrivono a riguardo Raymond T. Mcnally e Radu Florescu in Storia e mistero del conte Dracula:

«Nel gennaio 1476, la Dieta ungherese diede il suo sostegno formale alla candidatura di Dracula al trono valacco e a febbraio l’autorità di Dracula sulla Transilvania era già così forte che Basarab [Basarab III Laiotă cel Bătrân] reagì scrivendo ai cittadini di Sibiu che non si considerava più loro alleato perché Dracula viveva tra di loro.

Nell’estate dello stesso anno, vent’anni dopo la sua ultima salita al potere, Dracula fece piani precisi per riconquistare il trono, che era ancora ufficialmente occupato da Basarab. Matthias affidò il comando supremo della spedizione a Stephen Bathory, membro della famosa famiglia di nobili ungheresi originari della Transilvania. A metà novembre, in presenza di alcuni boiari, il metropolita di Curtea de Arges reinvestì Dracula della carica di principe, anche se aveva ancora molti nemici: era considerato come un criminale senza pietà sia dai sassoni sia dai boiari, contro di lui cospiravano i sostenitori di pretendenti al trono rivali, era odiato dai turchi e da Basarab e tutti giuravano che l’avrebbero ucciso.» – pp. 132 – 133

Aggiungo inoltre che non fu il fratello di Brankovic a combattere con Vlad III contro i turchi ma suo nipote Vuk Grgurević Branković, di certo non lo fecero perché erano amici ma per ordine del re ungherese Mattia Corvino a cui erano entrambi sottoposti:

«La prima azione militare contro i turchi a cui Dracula partecipò ebbe luogo nel 1474, quando gli fu affidato il contingente ungherese al fianco di Vuk Brancovic, il despota serbo.» –  Raymond T. Mcnally, Radu Florescu, Storia e mistero del conte Dracula, p. 132

5) «Stante la scomunica di Dracula, Maria non avrebbe mai potuto indicare tale discendenza in un paese cattolico, pena la perdita dei sacramenti, la possibilità di un matrimonio e della stessa protezione.» – link

Se mai ci fu una scomunica di Vlad III lo fu da parte della chiesa ortodossa non certo di quella cattolica come si vuole fare intendere, Dracula era di fede ortodossa e solo in seguito si convertì a quella cattolica anche se probabilmente a malincuore:

«Nella narrazione russa, la questione del secondo matrimonio di Dracula è legata al suo abbandono dell’ortodossia e alla conversione al cattolicesimo romano, che ovviamente fu severamente criticata.
Solamente dopo la formale rinuncia all’ortodossia, il re diede a Dracula la mano della sua parente e decise di nominarlo candidato ufficiale al trono valacco. Per cercare di comprendere questa storia intricata, bisogna considerare che Matthias pose Dracula di fronte a una scelta forzata: morire in prigione oppure convenirsi al cattolicesimo per sposare un membro della famiglia reale ungherese e divenire così un degno candidato al trono valacco. Alcuni apologisti ortodossi espressero la loro legittima indignazione riguardo alla decisione di Dracula di abbandonare “la vera fede”, ma in effetti Dracula non poteva permettersi di fare altrimenti.
Considerando la sua natura ambiziosa, la proposta era di certo piuttosto allettante: il trono della Valacchia valeva sicuramente una messa cattolica.

(…)

Dal punto di vista del re ungherese, la conversione di Dracula e il matrimonio con un membro della sua famiglia, contribuirono a ristabilire lo “status quo”. Dimenticando i peccati commessi in passato, a Dracula venne concesso il ruolo di leader di un esercito crociato cattolico e fu nominato capitano. Il re, che era finalmente stato investito della santa corona ungherese di Santo Stefano, poteva giustificare l’utilizzo dei fondi rimanenti e preparare il suo protetto a riaffermare l’autorità in Valacchia e a capeggiare la crociata contro i turchi.
Dal momento del suo matrimonio e della conversione, la candidatura attiva di Dracula al trono della Valacchia divenne un fatto compiuto.» –  Raymond T. Mcnally, Radu Florescu, Storia e mistero del conte Dracula, pp. 128 -129; 131

Maria Balsa poteva tranquillamente dire di essere figlia di Vlad III senza il pericolo di perdere i sacramenti con il rischio di non potersi sposare, il fatto che Vlad III sia stato un leader dell’esercito crociato contro i turchi sarebbe stato un ottimo “biglietto da visita” per Maria, non avrebbe quindi avuto senso tenere nascosto la cosa.

6) «Si è andati quindi ad analizzare il blasone della Balsa perfettamente visibile sulla facciata esterna cattedrale di Acerenza (all.) che è proprio un “drago alato” che sovrasta un elmo e lo stemma dei Ferrillo.» – link

Quello che vediamo sulla facciata della cattedrale di Acerenza corrisponde all’arma della famiglia Ferrillo, nell’arma vediamo rappresentato “anche” lo stemma di famiglia. Le parole di Glinni dimostrano la sua scarsa dimestichezza in materia di araldica che ha delle regole ben precise e che non possiamo ignorare, proviamo a dare uno sguardo più attento agli elementi che compongono l’arma dei Ferrillo:

Arma della famiglia Ferrillo
Francesco Pastore © Riproduzione riservata

Riporto di seguito un piccolo glossario araldico che spiega gli elementi evidenziati dell’arma dei Ferrillo:

ARME o ARMA: «Dicesi arma il complesso di tutte le figure, emblemi, pezze, smalti, ornamenti, contrassegni d’onore d’una famiglia o a distinguere una nazione, una provincia, una città, una corporazione, ecc.» – G. Crollalanza, Enciclopedia araldico-cavalleresca, Pisa 1876-77, p. 59

SCUDO: «Lo scudo era il principal pezzo dell’armatura del cavaliere, perché portava le sue divise e ne significava le imprese con linguaggio simbolico che formò il blasone.» – G. Crollalanza, Enciclopedia, p. 529

TIMBRO: «Nome che applicasi a tutto l’ornamento posto al disopra dello scudo nelle arme serve a designare la qualità della persona che lo porta. V. Elmo.» – G. Crollalanza, Enciclopedia, p. 583

ELMO: «L’elmo si trova in araldico come ricordo della cavalleria e delle imprese militari. Esso può stare entro lo scudo e fuori. (…) II. Elmo sopra lo scudo. – Gli elmi si pongono anche sopra lo scudo, a cui servono da timbro, per ricordo d’antica nobiltà cavalleresca, o per distinguere il grado.» – G. Crollalanza, Enciclopedia, p. 277

CERCINE: «Sull’elmo sta il cercine, costituito da un cerchio di stoffa arrotolato dei colori dell’arma, ripieno al suo interno, che serve a trattenere i lambrecchini.» – G. Bascapè, M. Del Piazzo, Insegne e simboli. Araldica pubblica e privata, medievale e moderna, Ministero Beni Att. Culturali, 1999, p. 601

LAMBRECCHINI: «I lambrecchini o meglio gli «svolazzi», sono pezzi di stoffa frastagliati attaccati all’elmo e pendenti attorno allo scudo.» – G. Bascapè, M. Del Piazzo, Insegne e simboli, p. 601

CIMIERO: «Il cimiero è la parte più elevata dell’elmo, ed in araldica è l’ornamento del timbro come il timbro lo è dello scudo.» – G. Crollalanza, Enciclopedia, p. 176
«Qualsiasi figura che cima l’elmo di uno scudo: aquila, leone, guerriero, ecc.» – G. Bascapè, M. Del Piazzo, Insegne e simboli, p. 601

È chiaro quindi che Glinni scambia il cimiero a forma di drago dell’arma dei Ferrillo con il blasone di Maria Balsa costituito da ben altri elementi e simboli.


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